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L’invenzione di Milano e il sogno di una città che rischia di infrangersi

Il saggio, L’invenzione di Milano, di Lucia Tozzi svela gli inganni del marketing e della comunicazione nella costruzione di una Milano che solo grazie al conflitto potrà salvarsi

Processo a Milano: tutti ne parlano pochi ci vivono

Purché se ne parli. Non vale per Open to meraviglia e non vale neppure per Milano. Perché non c’è dubbio che di Milano si stia parlando, solo con toni meno lusinghieri ed entusiasti di quanto sia stato negli ultimi tempi. Affitti cari, macchine, tram e betoniere che attentano alla vita dei ciclisti, spazi pubblici risicati, alberi striminziti che non riforestano neppure un balconcino in una casa di ringhiera, smog alle stelle, ondate di calore. Una narrazione che si è trasformata in un processo a Milano. Milano è sempre lì, che se la canta e se la suona. 

Milano ha smesso di essere attraente?

Per chi scrive, Milano ha smesso di essere attraente nella distanza. Finché ci stavo non mi accorgevo delle sue mancanze, delle sue ingiustizie, la guardavo con benevolenza, con affetto. In fondo Milano è altruista, ci sono le associazioni, ai giovani piace, ci continuano a venire, qualcosa avrà da offrire per forza. Io ci sono cresciuta e sono stata felice. Mi dà ancora da lavorare e prima o poi ci vorrò tornare perché lì ci sono le persone che amo. Poi ci sono le mostre, i teatri, i cinema e i cinemini. C’è tutto, e anche di più. Questo tutto ha un prezzo non sempre accessibile e soprattutto dà la sensazione di essere avvolto in una patina luccicante e fasulla. 

Milano consumista, come l’America

Ti invita a comprare, a essere, a partecipare, ma le regole del gioco sono sempre più evidenti. Esisti e sei ammesso solo se le rispetti. Se paghi per tutto, se ti emozioni a ogni nuovo locale/ristorante/galleria aperta, a ogni evento messo in agenda, se reciti la farsa della Milano città europea, cosmopolita, LGBTQI+ friendly, inclusiva. Milano sempre proiettata al futuro. Davvero? Pure adesso si vuole insistere? Adesso che il futuro fa acqua (e paura) da tutte le parti? Si, anche adesso, perché lo storyteling, parola introiettata nella nostra provincia nell’ultimo quinquennio, ha un forte potere. Noi, nati tra la fine degli anni Novanta e i primi anni ottanta dovremmo saperlo bene. Noi che crediamo che l’America sia un posto bellissimo grazie a Beverly Hills e Melrose Place e fa nulla se poi i bambini vengono sterminati nelle scuole o se i neri vengono ammazzati per strada. Noi vogliamo credere. Da lontano, e ancora di più da vicino. Perché continuare a essere quelli grigio nebbia se possiamo essere noi, Melrose Place?

Lucia Tozzi, L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane, pubblicato da Cronopio 

Lucia Tozzi, con il suo agile ma denso L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane, pubblicato da Cronopio lo scorso marzo, ma al quale l’autrice lavora da oltre due anni, ci aiuta a diradare la nebbia e a riportarci coi piedi per terra. Non siamo Melrose Place. La città sfavillante e progressista altro non è che una favola. «Un’allucinazione collettiva generate dalle droghe del marketing» che hanno portato tutti noi, milanesi e non, a un «allontanamento sistematico dalla realtà che sul lungo periodo produce effetti indesiderati: lo stato euforico si rivela per quel che è, una manifestazione di fragilità, e si alterna a fasi di depressione acuta, come succede a chi soffre di disturbo bipolare». L’invenzione di Milano è un saggio forte, che a tratti mette tristezza e porta chi legge a chiedersi: dov’ero mentre questo accadeva? 

I progetti di riqualificazione a Milano: da Citylife a Porta Nuova al futuro di Porta Romana

Quando tutto ebbe inizio – secondo Tozzi con l’Expo – io mi occupavo di cronaca. Giravo per le strade, seguivo gli eventi, ascoltavo le conferenze stampa e credevo di avere uno sguardo critico su quanto mi accadeva intorno. Fino a che l’esposizione universale dedicata a nutrire il pianeta si è rivelata la ghiotta occasione per rimpinzare di sogni e speranze una città in cerca d’autore e tutti, giornalisti inclusi, ci siamo seduti a tavola. 

«La riuscita della gigantesca operazione immobiliare – ricorda Tozzi lucidamente nel suo libro – non era per nulla scontata: la crisi mondiale del 2008 aveva scatenato il panico a Milano, che aveva visto fallire – tra arresti e scandali – il progetto del faraonico quartiere smart di Santa Giulia-Rogoredo di Norman Foster, il Cerba di Boeri (ospedale e centro di ricerca di Veronesi sui terreni di Ligresti a Parco Sud), la Beic, Biblioteca europea, a Porta Vittoria, l’intera riqualificazione di Sesto San Giovanni su masterplan di Renzo Piano. Le tre torri di Citylife sull’area dell’ex Fiera stentavano a partire, Expo era un vero e proprio pantano, e la stessa Garibaldi-Porta Nuova aveva incontrato ostacoli e rischiato il blocco, fino al momento in cui, nel maggio 2013, il fondo sovrano Qatar Holding non acquistò il 40% dell’intero progetto».

Le mani su Milano: Qatar, Azerbaigian, Cina, Stati Uniti, da anni un decennio i fondi stranieri comprano e costruiscono Milano, trasformandola in un prodotto

«C’è un problema di proprietà – evidenzia Tozzidi sovranità, anche se è una parola ormai stigmatizzata Svendendo, abbassando gli oneri di urbanizzazione al 3-5% come è avvenuto nell’accordo per gli scali ferroviari, quando in una qualunque città tedesca superano il 30%, si corre il rischio che si creino città vuote, utili solo come appoggio per le transazioni finanziarie. Milano sta espellendo migliaia e migliaia di abitanti, ora se ne parla perché anche il ceto medio se ne sta andando. La città resiste perché attira tutta la borghesia d’Italia e i professionisti. Avvocati, commercialisti che si spostano dove ci sono gli affari».

Una città che non appartiene più ai propri cittadini e che anzi, inseguendo la novità a tutti i costi, auspica una popolazione fluttuante. «Nel libro ‘Le città visibili’, l’assessore Pierfrancesco Maran scrive che Milano è abitata da cittadini short term che la ringiovaniscono, sono più disposti a spendere e meno attaccati alla storia – ricorda Tozzi, che nel suo saggio aggiunge: «Per Maran, i cittadini a breve termine – una razza di nomadi agiati – sono l’arma segreta per neutralizzare il peso politico, almeno a livello locale, di quelli che con un tono di impercettibile disprezzo chiama ‘nativi’ o ‘abitanti storici’».  

Nomadi vs nativi: Le città visibili di Pierfrancesco Maran

«Milano – si legge ancora ne ‘Le città visibili’ – che negli anni Novanta aveva avuto  una svolta a destra dopo Tangentopoli, sta vivendo un cambiamento politico che potremmo definire strutturale – è dal 2011, quindi da oltre dieci anni, che in qualunque tornata elettorale, locale o nazionale, il centrosinistra è maggioranza – e credo che questo dato sia dovuto non tanto al cambio di posizione politica dei nativi milanesi, ma dal fatto che larga parte dei nuovi arrivati ha valori progressisti. Attribuire ai nativi tratti di sedentarietà, tradizionalismo, risentimento serve a screditare in partenza le loro istanze conflittuali – risponde Tozzi – Dividere la popolazione urbana in stanziali e nomadi offre l’opportunità, dal punto di vista urbanistico, di spacciare la propria idea di trasformazione come l’unica forma di cambiamento possibile, e di ridurre qualsiasi desiderio di una città diversa, meno diseguale, a una triste espressione di sentimenti reazionari».

Processo a Milano: resteranno solo turisti e ricchissimi

I modelli perseguiti, con i quali Milano si mette in gara aspirando al podio sono Parigi, New York, Londra, che Tozzi non ha dubbi nel definire «modelli disumani dell’abitare. Anche Mark Fisher lo diceva – ricorda l’autrice – le città sono state luoghi interessanti perché c’erano le case popolari, i sussidi e questo ha concesso alle persone di avere tempo per creare e non solo lavorare per pagare il mutuo e l’affitto».

Nel suo essere europeo, globale e internazionale, in realtà, riflette Tozzi, «il modello Milano è insopportabilmente provinciale perché sta inseguendo, fuori tempo massimo, proprio quella stessa traiettoria che ha portato New York e moltissime altre metropoli alla frigidità. Un urbanesimo triste che svuota le città delle funzioni vitali rendendole fruibili solo per due categorie di persone: i turisti, che proiettano su di esse i sogni che il marketing ha riservato al loro specifico segmento (chi cerca le vestigia di miti musicali, chi insegue i film di gangster, chi il manuale di architettura, chi le serie sull’aristocrazia, chi fa un tour LGBTQI+) e i ricchissimi».

Milano non è neppure progressista?

Chiedo sconsolata. «Bisogna intendere che cos’è il progressismomi risponde Tozzi – Lo è ma in una forma neoliberale, orientata a una serie di temi legati ai diritti civili e poco orientati ai diritti sociali. Il sociale viene declinato nella falsa partecipazione. I quartieri del centro, all’interno delle porte per intenderci, sono luoghi dove c’è una forte attenzione ai diritti LGBTQI+, al transfemminismo, alla lotta al razzismo, teoricamente anche all’ecologia, intesa però come borracce e architettura green. Un’ecologia che non si collega al consumo di suolo. Il progressismo neoliberale integra perfettamente questa narrazione ‘win win’: è bene crescere però si può essere inclusivi anche solo curando il giardinetto sotto casa. No, non è così, il conflitto è necessario».

La rivoluzione arancione di Milano che nessuno ricorda più

La sera del 30 maggio 2011 piazza Duomo sembrava San Paolo e Pisapia l’alter ego di Lula. Milano, la democratica, l’immensamente di sinistra come un film di Nanni Moretti. La chiamammo rivoluzione arancione, come quella di Yulia Tymoshenko a Kiev nel 2004 (tristissimo presagio a guardarlo in prospettiva). Che ne fu di Giuliano Pisapia, della Milano che gridava addio a Letizia Moratti, al suo predecessore Gabriele Albertini e perché non ricordare anche Marco Formentini? E chi se lo ricorda? Milano esiste da quando esiste Beppe Sala. Eppure Pisapia, con il senno e l’analisi di poi, altro non è stato che tassello del grande puzzle. Tozzi ricostruisce alla perfezione quello che è accaduto, gettando un’ulteriore ombra sulla creazione di Milano quale grande bugia: «Sul piano culturale il fenomeno più rilevante del quinquennio è stato lo stravolgimento definitivo del concetto di partecipazione: Giuliano Pisapia fu eletto grazie alla grande mobilitazione del mondo dell’associazionismo, ma il risultato fu ben lontano da un governo ‘dal basso’. Complice la riorganizzazione del settore no profit che sarebbe sfociato più tardi nella riforma del Terzo settore, le organizzazioni che raccoglievano desideri e proteste degli abitanti, che prodigavano energie e servizi sul territorio, non furono invitate a partecipare alle decisioni politiche e finanziarie che avrebbero influenzato il futuro della città, dei suoi quartieri e dei suoi cittadini, ma al contrario furono ingabbiate in un sistema di bandi e progetti, ispirati o finanziati direttamente dai programmi europei per la cultura, che le costringeva ad abbandonare le istanze conflittuali, a mettere in secondo piano gli scopi per cui erano nate (assistere i più poveri o le categorie più disagiate, contestare progetti sgraditi, difendere o costruire attività culturali non commerciali) e dirottare le proprie attività verso la produzione di consenso e la partecipazione a una serie di festival diffusi nella città». 

L’housing sociale a Milano è un grande affare

La città scandita a settimane, luoghi nascenti di cultura alternativa e di inclusione sociale che nel giro di mesi si trasformano in baretti, il libro di Tozzi non tralascia nulla. Ci aiuta a far luce sul passato e a non cadere nell’inganno degli anglicismi che nascondono interessi – privati, ovviamente. «In una città che attira ricchezza sarebbe normale che ristrutturassero le case popolari e invece diecimila sono chiuse e abbandonate. Housing sociale non è un sinonimo di casa popolare ma un’operazione fatta da privati e gestita da privati – allerta Tozzi – L’accordo firmato a fine marzo tra COIMA (fondata e guidata da Manfredi Catella, ndr) e CCL (Consorzio Cooperative Lavoratori) per il momento limitato alla costruzione di unità abitative dell’ex scalo di Porta Romana, è un esperimento per poi mettere a sistema la cogestione di tutte le case a canone sociale. É un nuovo modello di mutualismo finanziario. Le case popolari devono rimanere distinte dall’housing sociale. Affermare di non avere soldi per gestirle è uno scandalo quando già nel 2019 si parlava di 10 miliardi di investimenti finanziari nell’arco dei successivi cinque anni. Milano si è convertita in un paradiso fiscale per il settore immobiliare ma concedendo oneri così bassi alle immobiliari non incassa e non ridistribuisce la ricchezza che viene prodotta».

RIP Salvatore Ligresti, il primo palazzinaro di Milano

Prima che Milano si convertisse nella terra del sole e delle libertà, a farla da padrone era il mattone, duro e puro. Senza firme di archistar e senza biblioteche degli alberi. Re, o meglio, viceré incontrastato del periodo era Salvatore Ligresti, imprenditore siciliano arrivato al nord negli anni sessanta. Di lui se ne sono dette di tutti i colori ma secondo Tozzi una qualità l’aveva: «Ligresti era un nemico più gestibile e simpatico, non faceva nulla per mascherare la sua identità. Si faceva chiamare tranquillamente palazzinaro. Non gli interessava la critica. Additato come mafioso e finito in galera, era chiaro nei suoi intenti. Diceva io porto il progresso». Ma da Tangentopoli in poi certi personaggi non sono più stati ammessi e i viceré hanno il volto giovane e il sorriso aperto di Manfredi Catella che «stende tappeti di prato fresco a ogni nuova stagione, ma in cambio usa il parchetto come vetrina per promuovere il suo impero. Bam è uno spazio di comunicazione e marketing, e in quanto tale deve essere sicuro, decoroso e al tempo stesso animato – nel senso che proprio ci sono gli animatori – scrive Tozzi – Come nella tradizione dei parchi privatizzati newyorkesi c’è un direttore, Francesca Colombo, che stila un fitto programma ‘culturale’ mese per mese, fatto di corsi di ginnastica sponsorizzati Nike alternati a tai-chi, installazioni di design commerciale, spiagge urbane a pagamento e concerti alternati a djset, lezioni di botanica e agricoltura da balcone, veicoli di messaggi positivi in armonia con la natura». Già, perché come noi stessi osservammo mesi fa, l’ossessione del verde è un’altra delle caratteristiche della Milano attuale che promette immersioni nei boschi in quartieri periferici ribattezzati con nomi accattivanti.

La comunicazione ci salverà?

«A differenza di Ligresti – riflette ancora Tozzi – Catella è più vulnerabile ai danni di immagine e come lui tutto il ceto politico» La comunicazione e il marketing dunque, usate come armi di costruzione di massa di una città ideale, potrebbero alla fine rivelarsi un tallone d’Achille e Tozzi, nonostante tutto, è ottimista. «Secondo me il modello è nefasto ma c’è ancora spazio per la critica. San Siro e il progetto del nuovo stadio bloccato è un esempio che ci fa ben sperare. Bisogna tornare a intendere il conflitto e le proteste come qualcosa di costruttivo. Bisogna – conclude – tenere il dibattito a un livello alto e non emotivo». Milano non la si ama o la si odia. Milano la si cambia, insieme.

Claudia Bellante

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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