Nikolay Biryukov / Lina Hoss
Text Roberta Mazzoni
Ricordo ancora la prima volta che vidi Enrico. Era il 1980, ero arrivata da pochi anni a Roma per tentare la grande avventura del cinema. Ci incontrammo a casa di Fabrizio Apolloni, antiquario e amico di famiglia, e per me fu una vera e propria folgorazione, non solo per la sua avvenenza – a quei tempi Enrico era un meraviglioso cinquantenne – ma per la gentilezza, il garbo e l’attenzione con cui ascoltò i miei primi balbettanti progetti cinematografici, ancora del tutto utopistici e informi. Avevo trent’anni allora, e ancora non avevo ben capito cosa avrei fatto ‘da grande’. Le esperienze che avevo avuto da poco come assistente alla regia avevano fatto naufragare per sempre il sogno di diventare regista. Non era il mestiere per me, non avevo la concentrazione, la sicurezza e il carisma necessario per riuscire a dominare un set. Così, da qualche tempo, stavo pensando alla sceneggiatura, e glielo dissi. Ricordo ancora il suo sguardo, la sua curiosità.
Fu quell’attenzione che mi fece pensare a lui, un anno dopo, quando Salvatore Nocita – per il quale avevo appena scritto un trattamento per un film televisivo in quattro puntate su Carlo Magno che non fu mai realizzato – mi offrì la sceneggiatura de I promessi sposi, la mia prima sfida professionale – «ma prima devi trovare uno sceneggiatore famoso che ti affianchi», mi disse, «tu sei troppo giovane e inesperta». Fu così che pensai a Enrico. Lo chiamai sicura che mi avrebbe mandato al diavolo e invece accettò subito. «È uno dei sogni della mia vita» mi disse.
Iniziò così il nostro sodalizio che, professionalmente, durò diversi anni e che, affettivamente, dura tutt’ora. Enrico ama chiamare i suoi giovani collaboratori ‘complici’, in realtà è stato per tutti noi un vero maestro. Enrico mi ha insegnato tutto. Mi ha insegnato a costruire le scene, a scandire i dialoghi, ad affrontare ogni scelta con originalità, attingendo a piene mani dalla grande letteratura. Mi ha fatto capire che essere sceneggiatore, prima di ogni altra cosa, vuol dire essere curiosi, aperti, ‘ladri’ di realtà e di buone letture. Vuol dire conoscere il lato oscuro del cuore, le intermittenze, gli scarti del carattere. Mi ha insegnato a non essere mai didascalica, a delineare sempre i personaggi partendo dall’interno, da quel qualcosa capace di renderli verosimili ma non banali, universali ma allo stesso tempo unici e irripetibili.
In tutti i lunghi anni della nostra collaborazione, ogni volta che gli portavo le mie paginette, Enrico, senza farsene accorgere, le correggeva aggiungendoci quel tocco di verità, di witz e di originalità che le rendevano vive e geniali. Mi ha sempre lodato, mentre lavoravamo insieme, ma io so che quello che scrivevo non era nulla più di un compitino ben fatto. Era Enrico a restituire alle scene la vita che mancava, il guizzo che le rendeva uniche. Ha questo di bello, Enrico. Che ti accoglie nella sua vita, sapendo valorizzare i tuoi lati migliori, sapendo stimolare senza mai ferire, incoraggiare senza mai sottolineare i tuoi difetti.
L’avventura de I promessi sposi è durata sei anni, dal 1982 al 1988: ogni anno c’era una nuova revisione, nuovi produttori esteri da compiacere, nuove scene da riscrivere. Sembrava la fabbrica del Duomo ma, a ogni revisione, Enrico ha saputo trovare sempre la soluzione più brillante, l’escamotage più geniale e diplomatico per salvare il nostro lavoro e accontentare, nello stesso tempo, i committenti. Alla fine il prodotto che ne è uscito è stato di tutto rispetto ed è un peccato che la Rai non lo ritrasmetta a distanza di venticinque anni.
Poco dopo ci fu l’avventura di Casa Ricordi, per la regia di Mauro Bolognini. Anche questo un progetto che assorbì diversi anni e che ci permise di ripercorrere le vite dei più grandi musicisti italiani – da Donizetti, a Verdi, Bellini, Rossini fino ad arrivare a Puccini – raccontandoli attraverso i loro rapporti con la famiglia Ricordi nell’arco di un secolo di storia patria. Enrico è un grande conoscitore e amante della musica e lavorare a questa sceneggiatura è stato, più che un lavoro, un piacere e un’immersione nella sua cultura musicale.
Ci furono poi progetti non andati in porto, tra i quali il più importante fu il sogno di Goffredo Lombardo di realizzare Il Gattopardo, trent’anni dopo. Ci lavorammo con passione, raccontando l’ultima storia d’amore tra un maturo Tancredi, ormai vedovo e parlamentare, e una sua giovane figlioccia. Una storia ambientata tra la Sicilia e Roma in un periodo oscuro della storia siciliana di fine secolo, con intrecci di corruzione, delitti e malaffare – ispirati al delitto Notarbartolo e al fallimento del Banca di Sicilia – che di fatto diedero origine alla mafia. Anche questa volta, molte versioni, molti riscritture e alla fine tutto naufragò per la decisione di Alain Delon di non voler interpretare un vecchio Tancredi innamorato di una ragazza tanto più giovane di lui.
Quando poi la Lux scoprì il grande talento di Enrico, coinvolgendolo in progetti quali Guerra e pace e Coco Chanel, sperai con tutto il cuore di riuscire ad affiancarlo, ma i produttori avevano già in mente altri ‘complici’ e dovetti rassegnarmi a passare il testimone.
Enrico non è stato solo il mio maestro, è stato uno dei miei amici più cari, oltre che essere un vicino di casa. Devo a lui, infatti, anche la scoperta di Orvieto e la successiva decisione di seguirlo nella scelta di venire a vivere in questa dolce campagna umbra.
Insomma, senza saperlo, quella sera d’estate del 1980 in casa di Fabrizio Apolloni, quegli occhi chiari e attenti che si posarono con simpatia su di me cambiarono il corso della mia vita. Grazie, Enrico, e buon compleanno.
From The Fashionable Lampoon Issue 12
Photography
Nikolay Biryukov
Stylist
Kim Howells
Editor in Charge
Alessandro Fornaro
Hair
Keiichiro Hirano
Make-up
Marina Keri
Make up assistant
Jessica Summer
Photography assistant
Sarah Merrett
Digital tech
Clare Lewington
Producer
Annalaura Masciavè
Fashion assistant
Emi Papanikola,
Femi Hurley-Scott
Models
Lina Hoss @ next models,
Erin Maia @ select model,
Maddy Rich @ select model
Maciek Jasik / Maria Borges
Giovedi, 26 Maggio 1926
Per il comitato del Premio Pulitzer,
All’attenzione di Mr. Frank D. Fackenthal, Segretario,
Columbia University
New York City
Egregi signori,
vorrei ringraziarvi per aver assegnato il Premio Pulitzer al mio romanzo ‘Arrowsmith’. Premio che sono costretto a rifiutare e tale rifiuto non avrebbe senso se non vi spiegassi le ragioni.
Tutti i premi, come del resto anche i titoli e le onorificenze, sono pericolose. Gli scrittori che vogliono vincere dei premi prestigiosi tendono a lavorare non per l’eccellenza, ma per queste riconoscenze amene. Si tende a scrivere in modo timoroso per non stuzzicare i pregiudizi di una commissione creata dal caso. E il Premio Pulitzer per i romanzi è particolarmente discutibile perché il regolamento è stato costantemente e gravemente travisato.
Infatti, i termini per l’assegnazione del premio sono ‘per il romanzo americano pubblicato nel corso dell’anno che riesce a rappresentare al meglio l’atmosfera della vita americana nel suo più alto livello di educazione e virtù’. Questa frase, se significa qualcosa, vorrebbe indicare che la valutazione dei romanzi deve essere fatta non in base al loro merito letterario, ma in obbedienza a un qualsivoglia codice di buona forma che potrebbe essere popolare in un momento storico.
Che ci sia una tale limitazione del premio è poco comprensibile, sia per la riduzione che l’annuncio riporta e sia perché alcuni editori hanno strombazzato su tutti i giornali che ogni romanzo che ha ricevuto il Premio Pulitzer è, senza alcun dubbio, il miglior romanzo in assoluto. Il pubblico è indotto a credere, infatti, che il premio sia il più grande onore che un romanziere americano possa ricevere.
Il premio Pulitzer, per essere accettato in questo modo dagli scrittori, rappresenta molto di più che un migliaio di dollari per la vittoria. C’è la credenza generale che gli amministratori del premio siano come un organismo pontificio, unico organo che abbia con il potere di individuare l’opera con maggiori meriti. Si ritiene che siano sempre guidati da un comitato di critici responsabili, anche se nel caso sia di questo che di altri premi Pulitzer, gli amministratori possono fare, a volte, scelte piuttosto arbitrarie e respingere ottimi suggerimenti.
Se oggi il Premio Pulitzer è così importante, non è assurdo pensare che in una futura generazione potrebbe diventare l’unico obiettivo per il quale ogni romanziere ambizioso s’impegnerà; e gli amministratori del premio potrebbero diventare un organo giurisdizionale supremo, un collegio di cardinali, così radicati e così sacri che a sfidarli si rischierebbe di diventare blasfemi.
Solo rifiutando sistematicamente il premio Pulitzer, i romanzieri possono impedire che un tale potere venga imposto su di loro.
Il Premio Pulitzer e l’Accademia Americana delle Arti e delle Lettere sono l’inquisizione di seriosi signori letterari: tutto questo spinge gli scrittori a diventare cauti, gentili, obbedienti, e sterili. In segno di protesta, ho rifiutato l’elezione dell’Istituto Nazionale delle Arti e delle Lettere alcuni anni fa, e ora devo declinare il Premio Pulitzer.
Invito gli altri scrittori a considerare il fatto che, accettando i premi e l’approvazione di queste vaghe istituzioni, stiamo ammettendo la loro autorità, e attribuiamo pubblicamente ai giudici un’eccellenza letteraria, e mi chiedo se qualsiasi premio valga questa sottomissione.
Cordiali saluti,
Sinclair Lewis
(traduzione Michele Crescenzo)
From The Fashionable Lampoon Issue 11 – Magnifico
Photography
Maciek Jasik
Stylist
Zuza Sowinska Bania
Editor in Charge
Alessandro Fornaro
Editing and Coordination on Set
Costanza Maglio
Hair
Christos Kallaniotis
@kramer+kramer
Make-up
Kim Weber
Model
Maria Borges
@img
Photography assistant
Landon Yost
Olio by Michael Avedon
It’s Olio, by Michael Avedon, from the winter issue #11 – Magnifico
From The Fashionable Lampoon Issue 11 – Magnifico
Photography
Michael Avedon
Video
Filmaa
Stylist
Dinalva Barros @ b-agency
Creative Direction
Alessandro Fornaro
Editing and Coordination on Set
Costanza Maglio
Hair
Jonathan Dadoun @ b-agency
Make-up
Angie Moullin @ b-agency
Manicurist
Audrey Cheri @ b-agency
Model
Bara Podzimkova @ elite model
Photography assistant
Romain Mallard
Fashion assistant
Fernando Silva
Michelle Consoli
Digital tech
Hugo Lubin
Post-production
Up studio
There Is No Authority / Zach Gold
Text Lina Sotis
Milano? I punti fissi della città più smart d’Italia sono cambiati. Non sai più a chi chiedere un piacere. Fino al 2010 a ogni desiderio corrispondeva un volto, un nome, un cellulare di chi te lo poteva realizzare. O più semplicemente ti poteva dire «è realizzabile o no». I vecchi leoni della società dell’essere e del benessere sono andati tutti in pensione, i giovani leoni non hanno ancora preso il potere assoluto, forse perché nell’epoca del precariato quel potere non esiste più. Poi si conoscono fra loro ma gli altri non li conoscono. Insomma una bella confusione per una città che vantava una società, precisa e ristrettissima, che condensava la milanesità culturale, politica economica artistica, modaiola, avveniristica del capoluogo lombardo. Prima, dire un nome, un luogo significava siglare un’appartenenza. Negli anni Sessanta lo Stork, negli anni Settanta Oreste, bocciofila chic di Brera, negli anni Ottanta si cambia giro, da Armani si decolla su Prada. Tutti possono avere successo: i maldestri lo esibiscono. Nascono i finanzieri, gli intellettuali ripiegano sul Medio Evo. Adesso che, come dicevamo, i vecchi leoni sopravvivono ma non hanno degli eredi visibili, perché ormai il potere è internazionale e non cittadino e si muove come una lippa fra Londra, New York, Roma… Per fortuna arriva il volontariato, l’unico nuovo lavoro che ha dei punti di riferimento. Su questo avremmo molto da dire, come sul fatto che la vita si è allungata, che chi è stato bravo e fortunato ha il dovere di guadagnarsi la pensione mettendo a disposizione del prossimo il proprio sapere. A presto per delineare la nuova società. Nel frattempo appuntamento per un cappuccino, schiumoso, da Cova che rimane un buon riferimento.
Photography
Zach Gold
Model
Kirin Dejonckheere @dmanagement
Art Direction
Alessandro Fornaro
Stylist
Lisa Bae
Editing and Coordination on Set
Costanza Maglio
Hair
Noogie
Hair assistant
Trent Keel
Make-up
Holly Silius
Producer
Michael Skiny Power
Photography assistant
Kurt Mangum
Colin Smith
Post-production
Scott Grover
Fashion assistant
Kita Lewis
Special thanks to
Flower Ave
Studio 60
Graffio / Amanda Demme
Text Cesare Cunaccia
@cesarecunacciaofficial
Totemica e carica di significazioni, catalizzatrice di risvolti simbolici e di onirismo, di messaggi e di presagi universali – l’hanno chiamata la Tigre di Cremona. Non solo, va sottolineato, in ambito pop e camp: Mina costituisce una semantica a parte. È la maga dal gesto sinuoso, astratto e imprendibile tracciato nell’aria. È la pioggia di marzo e madama Doré. È un capzioso gioco di specchi e un sortilegio allegorico tra sincerità tagliente e mistificazione abbagliante. Mina, alias Mina Anna Mazzini. Lombarda, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940. Cantante, conduttrice televisiva, attrice e produttrice discografica – recita l’enciclopedia più attuale. Ruggenti gli esordi padani in balera appena adolescente col nome di Baby Gate tra gli urlatori sul finire degli anni Cinquanta, mentre esplode come una bomba la morgana del boom economico (si esibiva nelle balere del cremonese con la sua prima band, gli Happy Boys. Fu il titolare della Italdisc, Davide Matalon, a metterla sotto contratto dopo averla ascoltata a Casteldidone – n.d.r.). Grazie alla sua voce, unica e proverbiale, a una fisicità mutante e al contempo canonica, al suo intramontabile e sfaccettato carisma, Mina attraversa con il vento in poppa oltre mezzo secolo di storia italiana e seguita, anche nascosta dietro le quinte di una privacy invalicabile, a esercitare un regale dominio sull’intero immaginario del Bel Paese. Dell’Italia e delle sue infinite contraddizioni, Mina, in una sorta di ossimoro profetico, è il suggello e insieme l’antitesi. Popolare e sofisticata, romantica e femminista. Libera, incurante dei cliché e del perbenismo, assomma provocazione e indipendenza, metempsicosi e slancio di futuro. Per paradosso è insieme signora borghese appartata dalla placida vocazione casalinga e ragazzaccia geniale.
Ribelle, bizantina e lussureggiante icona gay. Infaticabile. In fourreau nero e catenina d’oro, sul palco fino alla catarsi e alla consumazione di sé, forse in fondo capricciosa e pigra. Ha rinunciato a una carriera internazionale, dicendo di no a Frank Sinatra che la voleva in America (si dice, per l’invincibile paura che le incutono gli aerei). Onnivora nel repertorio. Poliglotta, ha inciso dischi in spagnolo, portoghese e inglese, in turco e in giapponese, vedi il manga-song Sette mari, di sconcertante modernità metafisica. Ha cantato in napoletano, indimenticabile la sua criptica e sommersa versione di Sciummo di Concina e Bonagura. E in genovese. Ha sconfinato nel sacro. Flirtato leggera e irridente con il diavolo in persona e inneggiato a una mica tanto arcana robina qua scatologica con divertito humour bambinesco e vagamente snob. La galleria dei suoi successi non finisce mai. La sua discografia si frantuma in mille riflessi e seduzioni, spalanca file onusti di ricordi ed emozioni. Calzante, immancabilmente. Sentimentale e mélo. Carica di suggestioni e interrogativi. Sconsolatamente vera e sontuosamente fictional. Parole parole, in un rimpiattino implacabile con Alberto Lupo. Il sognante ottativo di E se domani. La trama onomatopeica e fiabesca delle Mille bolle blu. L’ivresse cristallina e l’ardua escursione di note in scala dal basso all’alto e viceversa dell’impareggiabile Brava. Poi, le atmosfere sessuali esplicite e l’allusione orgasmica de L’importante è finire. La struggente e conflittuale Bugiardo e Incosciente di Paolo Limiti. Neve, Vivere, Volami nel cuore, remake di Samuele Bersani e di Manuel Agnelli. I duetti con il vecchio amico Adriano Celentano. Capace di mille virtuosistici funambolismi vocali, proprio come una divina creatura transgender uscita dai fasti dell’opera barocca, Mina, suo malgrado, è diventata il fil rouge e lo specchio ustorio di vizi e virtù italiote, in un divampante falò di tic e vanità, in un vortice opulento di pura rappresentazione.
Un cocktail di imprevedibilità e delirio divistico che sfiora sfere mistiche e kabuki, che polverizza l’aggregante kermesse canora del Festival di Sanremo, tormentone che ogni anno, come un vaticinio, ci regala un differente ritratto della nazione. Mina che imbroccava le registrazioni al primo colpo, sicura, senza esitazione alcuna. Mina che ha capito tutto. Medianica pitonessa del vinile, ha previsto in largo anticipo la valanga di greve volgarità che avrebbe travolto tutto quel mondo televisivo patinato, rarefatto e in fondo ingenuo. Tutta quella garbata e gloriosa definizione di star system che le apparteneva. Si è portata via. Si è votata a un’esistenza di donna normale, consegnandosi però a un’aura mitologica quando, nel 1978, come una Greta Garbo nostrana, si è sottratta alle scene celandosi dietro le pesanti cortine purpuree della sua stessa leggenda. Volatilizzandosi del tutto dai media, da quel piccolo schermo di cui nella magica stagione tra i Sessanta e i Settanta catodici ormai sdoganati pure da Francesco Vezzoli, è stata l’incontrastata regina del sabato sera. Mina si è trasformata in luminoso fantasma dalle manifestazioni cruciali. Attesissime, proprio perché diverse. Sideralmente opposte nel senso e talvolta mirabilmente kitsch, permettendo che soltanto le grafiche e le fantasiose rielaborazioni del suo volto per le cover, in particolare di Tallarini e di Balletti, fossero il luogo della celebrazione e del pubblico riconoscimento del suo verbum. (Le copertine della discografia ufficiale di Mina sono 108 – n.d.r.).
È rimasta nella storia l’estrema apparizione televisiva di Mina: risale al 1974, lungo la collana delle puntate tematiche di Milleluci, regia dell’insuperato maestro del genere Antonello Falqui. Milleluci, l’ultimo grande varietà italiano in sublime bianco e nero, in cui Mina divideva la conduzione con un altro mostro sacro d’ogni generazione, Raffaella Carrà. Specie la sigla finale, Non gioco più, dove magrissima, quasi emaciata, elegante come non mai, con acconciatura un po’ Marella Agnelli e pesante trucco espressionista degno della Lulu di Pabst e della prima Marlene Dietrich, tra lurex e piume, aspirando fumo da un lungo bocchino, recitava non senza ironia il ruolo di cinica femme fatale. Il refrain, annoiato e ipnotico, magari già preannunciava il suo imminente ritiro, avvenuto appunto nel 1978 e reso memorabile dai 14 recital d’addio sold out alla Bussola di Viareggio. Antonello Falqui, grande ermeneuta del sabato sera della RAI monocanale, l’aveva capito subito di che pasta fosse fatta la signora Mazzini. Nel 1964 la dovettero richiamare a furor di popolo perfino dopo l’esilio per la nascita del figlio Massimiliano avuto dal bel tenebroso Corrado Pani, attore sposato e fedifrago, fatto che produsse enorme fragore di scandalo e pruriginosa curiosità nell’Italietta bigotta e perbenista di allora. La TV era controllata da una censura inquisitoria, che paludava le prodigiose gambe delle gemelle Kessler in spessi e castigati collant neri, temendone gli effetti peccaminosi. (La storia con Corrado Pani non rimane l’unica che Mina sceglierà di vivere secondo le proprie regole. Nel 1970, a pochi giorni dal primo incontro con il giornalista Virgilio Crocco, il più classico dei colpi di fulmine si trasforma in un matrimonio lampo. Nasce la seconda figlia, Benedetta – n.d.r.).
Verranno Teatro 10 e Canzonissima ’68, con una teoria di veri capolavori tra cui La voce del silenzio, Io innamorata e Vorrei che fosse Amore. (La quinta puntata di Teatro 10 entra nella storia della televisione italiana per i nove minuti in cui Mina – abito nero lungo e maniche trasparenti, chioma fiammeggiante e leonina – e Lucio Battisti dividono il palco e il repertorio. Le prove non erano andate bene, con la band di Lucio arrivata da Roma in treno per risparmiare sul volo e che, per la stanchezza, non riesce a trovare il giusto feeling sul palco. Adriano Celentano, che era nei paraggi con l’orecchio teso, ironizza: «Oh, se vi serve qualcuno io sono qui» – n.d.r.). Mina, come nessuno, ha saputo cambiare di continuo, entrando e uscendo da estetiche, da generi e da ruoli musicali. Surfando tra le attese e le esigenze di un consumo di massa e di una ricerca personale punteggiata da interpretazioni epocali e cult da brivido. «Non conosce vergogna, ha proprio cantato di tutto, povera ragazza», sibilava di recente e malignamente una sua scorata collega, antica compagna di battaglia ancor oggi in attività. È proprio questa la forza di Mina: l’aver cantato tutto e di tutto. Quasi con sconsideratezza dégagé. Con orgogliosa e infantile impudenza, trasformando ogni hit in un qualcosa che appartiene solo a lei e che si trasfigura in una dimensione altra. Ogni tanto scopri una canzone che ti era sfuggita. Come quel piccolo incalzante gioiello estivo scritto da Augusto Martelli, Noi due, che è quasi la sinopia di una sceneggiatura di Godard o di un film di Antonioni.
Mila Schön, così come Germana Marucelli e Jole Veneziani, la vestiva spesso nell’âge d’or dei Sessanta e affermava che a Mina non importava niente degli abiti che avrebbe indossato. Era talmente immersa nella musica e nel suo mondo che non se ne curava per niente. Rimane inossidabile il suo contributo d’ispirazione e di riferimento per la moda, frequentata con assiduità e facoltà di reinvenzione sperimentale soprattutto nel sesto decennio del Novecento. Basti pensare alla serie dei caroselli Barilla, messi in scena da Piero Gherardi nel 1967 in location insolite e folgoranti, quali le architetture littorie dell’EUR a Roma o il grattacielo Pirelli. Non si può dimenticare Mina che intona l’impervia e trascendentale struttura di Se telefonando. Evergreen del 1966 che incrocia il compositore Ennio Morricone con i lyric del duo Maurizio Costanzo – Ghigo De Chiara, avvolta in un groviglio di cavi telefonici, misterica e quasi klimtiana sul tetto della stazione di Napoli Centrale ancora in costruzione. La sua voce echeggiante di sonorità metalliche ne L’ultima occasione, sullo sfondo di un arcadico paesaggio fra Poussin e Pasolini e delle rovine di un ponte a Tor di Nona. Infine, la Mina-geisha di Ebb tide. Atemporale. In fluttuante kimono off-white e smisurato ventaglio che ondeggia come una farfalla pop sul molo di cemento industriale della spiaggia deserta davanti agli stabilimenti dell’Italsider di Bagnoli, oggi non più esistenti.
From The Fashionable Lampoon Issue 10 – Grace & Graphic
Photography
Amanda Demme
Editor
Alessandro Fornaro
Model
Erika Linder @nextmodels
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Phillip Morrison
Fashion Market Editing
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Hair
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Misha Gibb