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Franca Sozzani a Venezia a settembre nel 2016 per la presentazione del documentario ‘Franca: Chaos and Creation’ diretto da suo figlio Francesco Carrozzini
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Franca Sozzani – oggi 22 dicembre, sono sei anni dalla sua scomparsa

Non significa autorità, adesso più che mai abbiamo bisogno di autorevolezza: il ricordo di Franca Sozzani rimane un riferimento per Milano a cui si riconosce il potenziale per diventare capitale d’Europa

Franca Sozzani, regina di Milano 

Parlando con i fotografi e gli stylist a New York o a Londra, facevo fatica a spiegare perché l’idea di uno shooting o l’atteggiamento nello stile non potessero andar bene per la direzione editoriale che io cercavo di dare a Lampoon. Discutevamo: cercavo di spiegare che non volevo immagini senza un tono, senza un racconto, senza una ragione – non volevo stereotipi, né da Parigi né da Los Angeles. Non ci capivamo. A un certo punto dicevo: noi in Italia abbiamo Franca Sozzani – e a questa frase, finalmente, tutti capivano cosa io stessi provando a spiegare.

Quando Franca Sozzani era in ogni nostro discorso e confronto, si pensava a cosa sarebbe successo quando il suo ruolo sarebbe stato lasciato libero – mai pensando alla sua scomparsa, solo a una naturale evoluzione dell’industria. Si supponeva che tutti sarebbero esplosi in una libertà che ogni autorità delimita – quando Franca non ci fu più, invece, assistemmo a un’implosione collettiva. Franca non era un argomento di autorità – era una giornalista, la direttrice di una testata che è replica locale di un originale americano. Non si trattava di autorità, si trattava di autorevolezza – e in questa differenza c’è tutto quello che dobbiamo saper ritrovare, continuare a imparare da lei.

Il timore e l’ironia

Era temuta – da chi lavora nell’industria della moda. Sorrideva, ti chiamava Amore se forse non ricordava il tuo nome. Ogni competizione aveva un senso se c’era Franca oltre il traguardo – irraggiungibile, certo, ma meta di ogni destinazione. Sei anni fa, l’energia implose nel vuoto che lasciò: invece che cambiare direzione, invadere le strade, dar vita alla rivoluzione, tutti smettemmo di correre. 

Milano, senza la sua Regina – Franca – la Franca, come in tanti la chiamavano usando l’articolo. La gente la amava – neanche Franca forse se ne è resa mai conto, nonostante i numeri la circondassero, le code per una firma sul libro. Era una figura che innamorava la grande massa – per il sorriso e la parola che aveva per tutti – ti chiamava Amore se ti conosceva un poco. 

Possedeva l’ironia con cui era capace di dire qualsiasi cosa – a me che non ero e sono nessuno, allo stilista marchigiano che è ancora fermo ai suoi gommini, all’uomo più ricco del mondo i cui manager vogliono decidere tutto, al Re di Norvegia e al Sindaco di Milano. Usava una battuta, la leggerezza di una frase o di uno scherzo – ma in una sua frase, sapeva sintetizzare una sua decisione e spiegarti che quella sua decisione andava rispettata. La dama di ferro e acciaio, scrisse Lina Sotis.

Duomo di Milano, febbraio 2017

Circa millecinquecento persone entrarono in Duomo, per la celebrazione qualche mese dopo la sua morte. Matteo Renzi, Anna Wintour, gli stilisti italiani tranne Dolce e Gabbana. C’era la classe dirigente, sociale e economica di Milano, c’era la stampa mondiale. Non c’erano blogger, a Franca non erano mai piaciuti – non li chiamava Amore nonostante non avesse mai saputo come si chiamassero. La sua fotografia nel libretto della messa. 

Nell’incipit, l’arciprete del Duomo, ricordo che confuse il nome di Franca con quello di sua sorella, scusandosi poi e richiamando la buona sorte divina sul legame eterno di una vita. Suo figlio, sua nipote. Tutti noi avevamo una panca assegnata, tutto era organizzato. Rispetto. C’era un punto di calore – la sua amica che a tutti muove durezza, forse antipatia – vicino a Franca no: quel giorno la voce pacata, lacrime e confidenza – Emanuela, la sua energia fiera. Si concluse un’epoca – l’età di Franca, Regina di Milano. Quello che oggi si ostina a non evolversi, appare patetico.

Franca Sozzani restava in ufficio fino a tardi nell’ufficio di Vogue in piazza Castello

La vedevo girare per la redazione, ma non avevo mai avuto motivo per interfacciarmi con lei. Ricordo la prima volta che le parlai. Ero solo uno stagista – avevo 23 anni, vent’anni fa. Erano le otto e mezza, quella sera, nell’ufficio di Vogue in piazza Castello. Stavo portando avanti un progetto di una mostra, e io quella sera avevo un problema e nessun’altra possibilità se non chiedere a lei come risolverlo. Tremavo, non avevo saliva. Sapevo che Franca ripeteva sempre che chi lavorava con lei doveva portarle soluzioni, mai problemi. Io, di soluzioni, non ne avevo idea. Franca è da sola nel suo ufficio. Busso anche se la porta è aperta. Entro, Franca mi considera quel poco necessario ad ascoltarmi. Le balbetto in velocità la questione – come potesse capirmi, non so ancora – si volta, mi guarda. Mi vede agitato, capisce che sono emozionato e capisce quanto già la osservo – mi sorride e mi dice: «Non importa, non sai quante volte ci provano».

Quello stesso periodo – il 12 di agosto, Franca mi chiamò al telefono. Gli altri erano in vacanza, Franca furiosa – io di corsa, sono in Versilia, prendo la macchina, guido di corsa a Milano – arrivo in ufficio e ovviamente non le servo più a niente. Ricordo come fossi felice, solo all’idea di essere comunque arrivato, per lei, prima degli altri. Oggi non è cambiato niente – vorrei continuare a imparare da lei. Quante rose le ho mandato, quante ancora le manderei. Su cento fotografie ne sceglieva una, subito. Uscivo di casa, lì in via Bagutta – Franca andava a cena da qualcuno nel mio edificio – io le aprivo la porta, il cuore a mille, un bambino con una cotta pazzesca. Ero laureato in odontoiatria – non sapevo cosa avrei voluto fare nella vita. Volevo scrivere romanzi.

Mi chiesero chi fosse la persona che più ammirassi 

Me l’hanno chiesto altre volte, ho risposto uguale. Mi batteva il cuore quando a tavola, il mio posto fu accanto a lei. Mi batteva il cuore, ogni volta che la incontravo – ogni volta, davvero ogni singola volta, che l’ho incontrata. Franca è sempre stata davanti al mio cervello – lontano e davanti, avanti. Tutte le volte che ne ho avuto il coraggio, ho sperato di fare un passo nella sua direzione. Ai tempi non sapevo cosa avrei fatto nella vita, ora ho un’idea un poco più chiara di quello che sto facendo – ma se mi fermo, so bene che quello che vorrei fare è sempre e ancora, quello che ha fatto Franca. 

Carlo Mazzoni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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