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Italia, il Paese di Peter Pan: a 50 anni sei sempre giovane

Secondo l’ultimo rapporto Demos per Unipolis in Italia si è considerati giovani oltre i 50 anni, così si intrappola la gioventù in un’eterna incertezza

Una condizione dello spirito

La gioventù non è una condizione biologica, ma dello spirito. Non esisteva fino a qualche decina di anni fa, e di fatto per come la intendiamo noi oggi è un prodotto del boom economico del secondo dopo guerra. La gioventù coincide con altre invenzioni sociali come il welfare, il tempo libero, la scuola dell’obbligo, la dolce vita, e così via. Forse anche un po’ con alcune invenzioni materiali, lambrette, motociclette, macchine decappottabili, abiti assai specifici. Si può essere vecchi a quindici anni se si è nati in un paese in guerra, costretti a impugnare un fucile per difendersi, e giovani a trenta se si vive a Milano e si sceglie dove fare l’aperitivo stasera.

Nei paesi europei oggi ci si definisce giovani fino a 40 anni. In Italia, in cui il welfare non a caso è debolissimo, può capitare oltre i 50 (io a trentaquattro anni suonati sono sempre definito un giovanissimo filosofo). Al tempo stesso, per ovvia conseguenza, la vecchiaia si allontana e comincia intorno ai 70 anni. Questa gioventù senza limiti precisi, ‘in(de)finita’ come la definisce l’ultimo rapporto Demos per Unipolis ha effetti di segno diverso. In primo luogo un effetto per così dire filosofico: sulla prospettiva verso il mondo e verso il futuro. I giovani si proiettano nel mondo con un grado di incertezza consistente, si sentono frenati e vincolati da obiettivi che si fanno sempre più diradati e sono svantaggiati nella mobilità sociale e nelle opportunità di carriera.

Moda e disforia anagrafica

La moda, questa storia, la conosce bene. Il boom economico coincide anche con l’invenzione della gioventù bruciata e dei modelli estetici che da James Dean a Marlon Brando corrono veloci verso le estetiche sportive oggi senza più nessun target specifico di Virgil Abloh. La gioventù da un lato è usata come entità di liberazione, dall’altro come trappola sociale: è la condizione in cui tutto ci è concesso ma anche la gabbia in cui tutto viene limitato. La filosofia sta alla gioventù in modo naturale. Entrambe sono definibili come il processo involontario in cui un’entità amorfa diventa, o meglio esprime, una soggettività autentica. C’è un prima e ovviamente anche un poi, che distingue nettamente una forma investita da questi processi: la questione, che ho provato a esplorare con il libro Essere giovani (Ponte alle Grazie 2021) è quanto sono reversibili, se lo sono, questi processi? E perché dovrebbero esserlo? 

Il giovane è un concetto e non un oggetto

Il giovane, più dell’animale o della pianta, è il concetto su cui si giocano tutte le potenziali questioni riguardo la ridefinizione della vita umana. Con la NABA a Milano, nel corso di Moda in cui insegno e insieme a Nicoletta Morozzi, abbiamo chiamato questa svolta della moda contemporanea lo ‘Human Reloaded’ impostandolo come tema di ricerca della scuola: che cos’è l’umano contemporaneo per cui dobbiamo creare futuro? La ragione della gioventù come entità teorica privilegiata in questa ricerca, presto detta, è che quasi chiunque è stato almeno una volta giovane (o, appunto, lo è ancora o per sempre). Il giovane dunque è concetto e non un oggetto; uno spazio di formalizzazione involontaria della messa tra parentesi del mondo. Giovane e adulto stanno in una relazione simile a quella del bruco con la farfalla. 

Il tema della gioventù come problema rilevante in filosofia è comune, ma non troppo. Un cantiere di ricerca che dalla filosofia muove verso la creatività è ancora tutto da inventare. Nel suo Infanzia Berlinese, siamo nel 1950, Walter Benjamin usa la metafora della città per raccontare la differenza tra il non sapersi orientare e lo smarrirsi. 

Da Benjamin a Nietzsche e Foucault

Solo l’adulto non sa orientarsi, l’adolescente si perde; con la mente siamo ancora tutti intrappolati da qualche ricordo di gioventù: la prima canna in spiaggia, la prima volta che abbiamo fatto l’amore, il primo giro in motorino. Se pensiamo ai momenti in cui forse abbiamo capito qualcosa del potere creativo della gioventù siamo costretti ad andare, con Benjamin, appunto al perdersi: il bere, il vizio, la droga, l’assenza di una morale. Non l’immoralità, che è mortificante, ma l’a-moralità: la condizione dell’animale, della pianta, e dunque anche del bambino che stacca le zampe a una lucertola per capirla, di un adolescente che in una periferia dimenticata ruba cinquanta euro a una signora distratta.

È la condizione in cui versa l’ultimo Nietzsche, eternamente giovane nei suoi sessantasei anni (gli anni che aveva quando morì), quella condizione che apre la Genealogia della morale come un attacco ai moralisti, agli psicologi, ai controllori: solo coloro che sono abbastanza folli da buttarsi sotto un cavallo che trema, fragile, possono davvero capire cosa sia stata la vita che chiamiamo giovane. La vita che giace al di là e al di qua di ogni controllo, la vita del giocatore di Dostoevskij, del Carmelo Bene che fa pisciare un suo attore su ambasciatore seduto in prima fila a uno spettacolo, di Walter Benjamin condannato da un uso criminoso dei suoi pochi soldi tra droga e prostitute, di Michel Foucault morto sotto il peso dell’Aids, di Beatrice Preciado che diventa Paul ma resta e resterà bellissima. 

La possibilità dell’esperienza estetica

La moda, dunque, conosce bene questa storia e muta e trasforma le età di coloro che andrà a vestire: la gioventù è una maschera, un abito, la condizione entro il quale si è sempre troppo al di qua o al di là di qualcosa. Dunque, una condizione incontrollabile se non da un limite imposto. Non è che l’adolescenza sia perdizione, quanto piuttosto la capacità di fare incontri improvvisi, di far scontrare soggettività: di fatto, a pensarci bene, l’adolescenza è la condizione di possibilità dell’esperienza estetica.

Si dice spesso che gli amici veri, quelli di una vita, sono gli amici di quando siamo stati ragazzi; quando ci incontravamo per caso, immediatamente legavamo fumando una canna sulla spiaggia, e poi improvvisamente il raggio di sole della sera di cui parla Salvatore Quasimodo arrivava anche a noi: «Ognuno sta sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera». Li osserviamo per un attimo senza pregiudizi, quelli che Giorgio Agamben attraverso la maschera del Pulcinella chiama «divertimento per li regazzi», ed effettivamente scorgiamo le potenzialità di un corpo, le passioni tristi di Spinoza, la capacità di essere senza nessuna coscienza di cosa ‘essere’ significhi. Essere, quando si è per davvero, significa non avere nessuna coscienza del fenomeno in questione.  

Una gabbia per intrappolare in un’eterna condizione di potenza

Da qui la filosofia si fa tutt’uno con la politica ordinaria: la gioventù diventa un modo per sopravvivere all’assenza di prospettiva ordinaria che le età adulte in un momento uguale e contrario al boom economico hanno da offrire. In Italia, tanto per volare un secondo più basso, sembra poter essere considerato autorevole solo chi ha raggiunto una certa età –sempre molto avanzata–, rendendo sostanzialmente impossibile il ricambio generazionale: la gioventù perde dunque ogni valore spirituale di cui abbiamo detto e viene usata come una gabbia per intrappolare in un’eterna condizione di potenza che mai diventerà atto. Ci sono dunque due polarità, in cui forse il pensiero creativo aiuta, ovvero il tentativo di rendere eternamente giovani gli adulti ed eternamente incapaci all’azione i giovani generando un ovvio paradosso: non esiste più nessuna persona abbastanza matura da essere ciò che dovrebbe.

La gioventù è anteriore ai giovani

I giovani, per il sistema che deve normare le vite sociali, sono un’entità incontrollabile. È una scommessa metafisica quella che c’è in gioco e la gioventù è indubbiamente anche un sistema morale: le vite potenziali che sono i giovani, proprio come un sistema di punti, seguono il modello dell’esistenza in cui non c’è spazio per distinzioni qualitative – è qui che, silenziosa, risiede la possibilità di azzerare ogni discriminazione. I ragazzi discriminano perché credono agli adulti. La morale viene dopo la credenza: indiscernibili, i giovani, senza mai essere identici. Se la gioventù è un pensiero e non un oggetto, come queste intuizioni sparse suggeriscono, allora vale per essa il principio dell’Etica di Spinoza per cui «un corpo non può essere limitato da un pensiero né un pensiero da un corpo». 

Una sostanza divina

La gioventù, per sua natura, è anteriore ai giovani: e allora forse, qui il mistero di tutta questa ricerca, i giovani e la gioventù non hanno davvero nulla in comune perché non possono essere gli uni causa dell’altra e viceversa. È qui che si innesta il circolo spinoziano, perché se poco hanno in comune non possono essere comprese, come avremmo intuitivamente fatto prima di questo viaggio, l’una per mezzo dell’altra. Gioventù e giovani si differenziano tra loro per la differenza degli attributi, la prima per esempio illimitata mentre i secondi limitati, così come sono distinti per affezioni.

La gioventù non è prodotta dai giovani, così come i giovani non dipendono da essa: è una relazione momentanea, quella con lo spazio della potenza in quanto tale che è dato dalla sostanza della gioventù, che termina nel momento in cui uno dei due termini (i giovani) si mostra come finito e dunque in negazione. La gioventù, essere infinito, «è una assoluta affermazione dell’esistenza di una natura …. ogni sostanza deve essere infinita». La gioventù è una sostanza divina.  Si tratta dunque di girare il dato di fatto da cui siamo partiti: giovani per sempre non significa intrappolati in qualcosa, ma liberi di sovvertire le stesse regole che avrebbero voluto intrappolarci. 

Leonardo Caffo

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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