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Balla di tessuti scartati, Alexander Donka
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La Circulose e il fallimento di ReNewcell da faro per la sostenibilità alla bancarotta

Un prologo durato una decade e uno svolgimento che si è bruciato nell’arco di un capitolo: perché il caso di ReNewcell è un fallimento dell’industria della moda 

Il fallimento di ReNewcell – «Nessuno vuole pagare un Green Premium»

Nel 2022 usciva sulle pagine del New York Times un editoriale dal titolo Saremo mai in grado di riciclare i nostri abiti come una lattina di alluminio?, a significare: riusciremo mai a sviluppare processi di riciclaggio a circuito chiuso, limitando così i rifiuti tessili, riducendo l’impronta di carbonio e stravolgendo il modello di business estrattivo della moda facendone un modello rigenerativo? 

La domanda trovava allora risposta in ReNewcell, astro nascente del riciclaggio tessile. Collocato nella cittadina costiera di Sundsvall, in Svezia, era descritto, tra l’enfatico e il favolistico, come un impianto tanto esteso da necessitare l’uso di biciclette per spostarsi da un capo all’altro della linea di produzione. Il sistema rigenerativo proposto da ReNewcell era così sintetizzato: grandi balle di rifiuti in cotone vengono riversate su nastri trasportatori, triturate, scomposte in liquami grazie all’aiuto di sostanze chimiche, sbiancate, asciugate e rimesse in circolo in una sostanza assimilabile a fogli di carta riciclata. 

Cosa è la Circulose, il materiale su cui ReNewcell ha fondato il brand

Tale sostanza porta il nome di Circulose®, una pasta su cui ReNewcell ha fondato il proprio brand omonimo, ad alto contenuto di cellulosa, prodotta al 100% da rifiuti tessili, e utilizzata a sua volta per produrre fibre tessili rigenerate. Citata come la prima realtà in grado di fornire all’industria moda un’ampia disponibilità commerciale di materia sostenibile, neanche il tempo che l’astro effettivamente nascesse, e il tutto si è dissolto nel termine di una bancarotta. È successo alla fine di febbraio 2024, a distanza di quattordici mesi da quando, a Dicembre 2022, era stato spedito il primo lotto di Circulose® perché fosse trasformato in tessuto rigenerato. Il motivo? «Nessuno vuole pagare un Green Premium». 

ReNewcell: dagli inizi ai primi investitori – H&M, Inditex e Levi’s, cos’à il green premium 

Per i non addetti ai lavori, il Green Premium non è altro che la differenza di costo tra lo svolgere un’azione secondo modalità che comportano la produzione di gas serra e lo svolgere la medesima azione senza emissioni. Tale differenza gioca totalmente a favore dell’emissione di gas serra, con una differenza di costi che spesso supera il 100%, non fosse per la crisi climatica in corso e la bassa qualità dell’aria che tutti respiriamo – elementi che fanno dei gas serra un problema di tutti, e non solo degli addetti ai lavori. 

Per chi sostiene che sostenibilità, gas serra e crisi climatica siano termini eccessivamente inflazionati è perché troppo spesso se ne parla in termini non chiari, nebulosi – e qui l’accusa di greenwashing è dietro l’angolo. Non è il caso tuttavia di ReNewcell, un progetto i cui obiettivi sono stati chiari fin dall’inizio. Se è vero che si è iniziato a parlarne solo nel 2022, il progetto è stato avviato dieci anni fa, tra progressive ricerche, sperimentazioni e investimenti. Un prologo durato una decade e uno svolgimento che si è bruciato nell’arco di un capitolo, quando è stato chiaro che nessuno voleva – o, in alcuni casi, poteva – pagare il Green Premium esistente fra una maglietta plastificata con una minima percentuale di tessuto riciclato da sistemi che si fregiano di sostenibilità, e la Circulose®.

Tra le sostenitrici di ReNewcell Nicole Rycroft, fondatrice Canopy, che vedeva nella realtà svedese la possibilità di slegare la produzione di tessuti dallo sfruttamento del legno nelle foreste pluviali

Stando ai dati del 2022, le proiezioni di crescita di ReNewcell stimavano la produzione di sessantamila tonnellate di abbigliamento riciclato entro l’anno, con un raddoppio nel 2023. Presupposto di tali proiezioni erano anche gli accordi di fornitura con il produttore cinese Tangshan Sanyou, con i gruppi H&M ed Inditex e con i brand Levi Strauss e Ganni. Già allora si sottolineavano gli alti costi di investimento e la necessità di ampliare progressivamente il portafoglio dei clienti, così da ridurre il costo della Circulose® e, di conseguenza, il Green Premium. Eppure le stime restavano positive. Tra le sostenitrici di ReNewcell si contava anche Nicole Rycroft, fondatrice della società no-profit Canopy, che vedeva nella realtà svedese la possibilità di slegare finalmente la produzione di tessuti da un’altra piaga del settore moda, ovvero lo sfruttamento del legno nelle foreste pluviali: 

«Si basa tutto sulla convinzione che non abbiamo bisogno di tagliare alberi di cinquecento anni per produrre scatole di pizza e magliette. Dobbiamo sostituire il 50% della fibra forestale con fibre a bassa impronta di carbonio e di nuova generazione. Gli innovatori possono usare una T-shirt strappata o della biancheria vecchia proveniente da una stanza di albergo, e i consumatori non se ne accorgerebbero nemmeno». Nella stessa conversazione con la giornalista di Forbes Ken Silverstein, Rycroft spiegava che, fino a poco tempo prima, molti rivenditori non sapevano che tessuti forestali come viscosa, modal e rayon provenissero per lo più dal legno di foreste in via di estinzione. Venuti a conoscenza dei fatti, concludeva, poteva ora vedere la luce di un impegno pubblico nell’utilizzo di tessuti riciclati. Da Forbes, l’argomento era rimbalzato sulle pagine delle maggiori testate internazionali, fino al Financial Times, dove un sottotitolo interrogativo lasciava spazio ai legittimi dubbi: «Le innovazioni nel campo dei tessuti stanno alimentando una nuova era del lusso. Saranno all’altezza delle loro promesse?». Col senno di poi diremmo di no. 

ReNewcell: le premesse del fallimento – perché la sostenibilità non è parte del business dei grandi marchi

A distanza di soli cinque mesi dalle brillanti proiezioni anticipate, a ottobre 2023 ReNewcell rendeva noto un aggiornamento che aveva fatto trasalire gli investitori. I dati del terzo trimestre evidenziavano infatti un calo della domanda: centoventinove tonnellate di Circulose® nel mese di ottobre, di fronte alle mille e cinquecento di settembre. Il dato mostrava di fatto la precarietà dell’ industria moda nelle sue ambizioni ambientali e un settore inadeguatamente strutturato a tradurre tali ambizioni in reale esigenza. Le catene di fornitura dei brand presentano infatti una struttura frammentaria, costituita da una complessa genealogia di ruoli, tra i quali spesso impera la mancanza di comunicazione, e che gli innovatori come ReNewcell si trovano a dover convincere uno ad uno. Il tutto si riduce ad un telefono senza fili, dove il team di ricerca materiali, responsabile della selezione dei fornitori, rimane spesso scollegato dal team demandato alle strategie di sostenibilità, focalizzandosi sul contenimento dei costi più che sulle regolamentazioni ambientali. 

Benché ReNewcell, consapevole delle falle nel sistema, avesse messo in atto una serie di strategie atte a superarle – accordi di acquisto con produttori di fibre e un network di fornitori costituito da oltre cento produttori di tessuti e filati impegnati a offrire prodotti in Circulose® – la causa ultima del fallimento va ricercata nei grandi marchi, interpreti della più grande falla del sistema moda: il dislivello esistente tra il top management e la leadership sulla sostenibilità. Quest’ultima, di fatto, non è considerata parte del business, quanto dell’immagine del marchio. Così si cerca il materiale più accettabile al minor prezzo possibile. 

Zara, Levi Strauss ed H&M hanno fatto uso delle materie prime fornite dall’impianto pilota di ReNewcell, ma si trattava di capsule collection, ovvero produzioni limitate che non si sono mai tradotte in accordi commerciali di lunga durata. Se è vero che ad ottobre 2023 erano state vendute quattordici mila tonnellate di Circulose®, la maggior parte di queste era ancora nelle mani di agenti di vendita, senza aver mai raggiunto i grandi marchi. 

Katrin Ley, amministratrice delegata della piattaforma per l’innovazione sostenibile Fashion for Good, ha parlato di due Valley of Death – letteralmente, Valli della Morte – quando si tratta di introdurre nel mercato nuovi materiali. La prima è quella degli investitori, base necessaria ad ogni impresa in fase di avvio, la seconda è quella dei brand. A scalfire ReNewcell nel percorso accidentato di penetrazione nel mercato dei materiali è stata la seconda valle, dove oggi l’azienda giace in attesa di un acquirente. 

Cosa ne sarà di ReNewcell? – La responsabilità delle Maison

E se nemmeno il Nordic Council Environment Prize vinto da ReNewcell lo scorso ottobre per «la soluzione innovativa per il riciclo e riuso di materiali tessili in nuovi vestiti e prodotti» e una copertura globale che annoverava editoriali sul New York Times, Forbes, Business of Fashion e il Financial Times sono valsi a salvare l’azienda dal fallimento, cosa lo farà? Le speranze sono riposte nelle nuove direttive europee, atte a imporre materiali sostenibili e pratiche di economia circolare. Tra gli imperativi già in atto vi è il divieto per le grandi aziende di destinare gli scarti di produzione alle discariche, oltre all’interdizione per chi contribuisce materialmente alla deforestazione. Si attende poi la nuova stesura dell’Ecodesign for Sustainable Products, in cui si promettono standard più elevati in termini di durabilità e riciclo dei materiali. 

Eppure, questo non basta: il deserto di Atacama è diventato un comodo deposito di rifiuti, gli abiti che in Europa non indossiamo più vengono spediti in Africa, dove saturano il mercato dei produttori locali, mentre entro il 2030 si stima che i rifiuti dell’industria della moda supereranno i cento trenta milioni di tonnellate. ReNewcell poteva essere una soluzione, ma è stato un fallimento. Non un fallimento di ReNewcell, quanto di marchi rimasti in silenzio, troppo diligenti nella lettura delle loro tabelle di profitto per leggere editoriali di sostenibilità e report sui nuovi materiali. Se la moda è un’arte e, come ha ricordato il direttore creativo di Bottega Veneta Matthieu Blazy, l’arte è un necessità anche in tempi difficili, è vero anche che i direttori delle Maison hanno una responsabilità: non sporcare quest’arte con politiche di solo profitto, insostenibili e, alla lunga, fallimentari. 

Il peso dei rifiuti in un sistema moda che non sa riciclare

Quaranta milioni di tonnellate l’anno è il peso dei rifiuti tessili prodotti ogni anno dall’industria moda. Quarta nell’elenco dei maggiori consumatori di materie prime all’interno dell’Unione Europea – la precedono l’alimentare, l’immobiliare e i trasporti – al suo stato attuale la produzione tessile dipende in gran parte da prodotti a base di combustibili fossili – uno fra tutti, il poliestere. A questo si aggiunge un sistema di riciclo prevalentemente a circuito aperto, in cui i materiali di scarto o usurati vengono fatti defluire a cascata verso altre filiere, destinati ad usi di minor valore di un bell’abito paillettato. I sistemi a circuito chiuso, al contrario, riciclano i materiali più e più volte, così da mantenerli in costante circolazione: è il principio per cui da bottiglie di plastica si generano nuove bottiglie di plastica (riciclate). 

La conseguenza dei malfunzionamenti nel sistema di riciclo del tessile è che meno del dieci percento del mercato della moda globale fa uso di materiali riciclati. I dati sopra riportati fanno riferimento al report sull’industria della moda globale pubblicato nel 2022 da McKinsey & Company e BoF, proprio nell’anno in cui si iniziavano a contare i primi tentativi di slittamento verso sistemi di riciclo a circuito chiuso. E i tentativi, in effetti, ci sono stati, ma i numeri rimangono gli stessi, perfettamente riferibili anche al 2024.

Stella Manferdini

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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