La parte sbagliata: il fascino per il male in adolescenza, la rabbia giovane e l’estremismo politico nel romanzo d’esordio di Davide Coppo pubblicato da Edizioni e/o
Lampoon intervista Davide Coppo
«Questa è una storia, non ci sono lezioni da trarne per salvare qualcuno o trovare la strada giusta. Il protagonista trova il modo di formare la propria identità in un gruppo d’estrema destra perché non riesce a essere riconosciuto dal mondo che gli sta in torno: il liceo, la Milano borghese. Capisce quanto l’antagonismo, l’odio, sia da provare che da cui essere investito, possano essere dei confini che ti definiscono. Diventare il cattivo ti da un posto nel mondo, e inizia a riconoscerti come quello. La giovinezza è l’età in cui si vanno a toccare i punti estremi per delimitare i limiti del campo da gioco e riconoscere i nostri confini. Volevo mostrare la confusione che si prova a quell’età. La rabbia. Ettore forse a un certo punto si rende conto di trovarsi dalla parte sbagliata ma fino a che non tocca il male estremo non conosce pace».
La parte sbagliata racconta la disperazione adolescenziale
Davide Coppo, giornalista e autore, è dell’hinterland milanese e ha gli angoli degli occhi che cadono all’ingiù come Ettore, protagonista del suo romanzo d’esordio, “La parte sbagliata” (Edizioni e/o). Come lui, ha frequentato un liceo milanese del centro, come lui ha frequentato un gruppo di estrema destra in quegli anni in cui Guccini sostiene sia ancora tutto intero, sia tutto un chi lo sa. La parte sbagliata non è un romanzo autobiografico, né un memoir. Anzi, prende le distanze dalla non-fiction per spingere ancora più in là il confine tra bene e male. È una storia dolce e antipatica, come la giovinezza, fatta di corse in motorino, di amicizie tradite, di primi amori e molte sigarette, di lotte personali che si fanno politiche. Di inconsapevolezza, di desiderio e di rabbia. Quella giovane, capace di bruciare ogni cosa.
«Ho voluto raccontare una radicalizzazione estrema che andasse al di là della sola formazione di un’ideologia. Mi sono imbattuto qualche hanno fa nella storia di Giorgio Vale, in un libro che si chiama “Corpo estraneo” (Milieu Edizioni), ragazzino romano che militò in Terza Posizione e poi nei NAR e divenne un terrorista neofascista. Venne ucciso dalla polizia in uno scontro a fuoco che aveva vent’anni. Il libro porta a galla questa rabbia incapace di incanalarsi in qualcosa di costruttivo. Voleva solo la rivoluzione, intesa in senso fascista».
«Ho scelto una frase di Del Giudice da mettere in epigrafe (“Bisogna tenere i libri distinti dai dolori”) come dichiarazione d’intenti, perché dicesse: questo libro non c’entra però con quello che ho passato io, in prima persona. E poi c’è Ginzburg, un riferimento costante rispetto a come una certa tenerezza possa essere usata come filtro attraverso cui vedere anche le storie più violenta. E mi interessava una lingua vicina all’oralità come la sua».
Il fascino per il male e il violento quotidiano: da Roberto Bolaño a Natalia Ginzburg
«Mi ha sempre affascinato, in letteratura, il racconto del male più puro, assoluto. Penso a Bolaño. La forma romanzesca permette il racconto dello straordinario, cosa che al memoir non riesce – a meno che non sia “Limonov” di Carrère. Tra i libri che tenevo sul comodino mentre scrivevo e che tornavo a consultare si trovano “Le benevole” di Joanthan Littel e “Stella distante” e “Notturno cileno” di Bolaño. Mi affascina la consapevolezza di fare il male. Ricordo ne “Le benevole” un congresso fatto per decidere se un particolare gruppo etnico doveva essere considerato ebraico. Un convegno per decidere se ammazzare delle persone oppure no. Tremendo ma affascinante. Una lucida pianificazione del male».
L’odio e la violenza nel mondo di oggi: il ruolo dei social e il pressapochismo
«L’insofferenza e il fastidio, che sono all’origine dell’odio, crescono sempre più perché è molto frenetico il modo in cui affrontiamo la vita. Ci concediamo troppo poco tempo per analizzare il mondo, le persone e le informazioni attorno a noi. I giudizi sommari nascono dalla fretta, dalla velocità con cui prendiamo un’informazione che ci arriva e la vogliamo immediatamente elaborare in un giudizio. Sicuramente i social network in questo hanno una grande responsabilità: nel creare o indifferenza o polarizzazione. Tra i miei amici, magari non giornalisti, penso che pochissime persone leggano il giornale ogni mattina, e penso sia strano e grave in un’epoca dove devi avere un’opinione su tutto. Questo non è possibile. Ma nel momento in cui ci è richiesto allora perché non andare a fondo? Il pressapochismo penso sia un fattore molto sopravvalutato riguardo la nascita della violenza».
La memoria testimoniale nel mondo di domani
Nella storia di Ettore c’è un ricordo sbiadito col tempo, un ricordo però prezioso, come preziosa è sempre la testimonianza di chi la guerra l’ha fatta. Lo zio della madre di Ettore, Leo, è stato arruolato nell’esercito italiano a diciotto anni, dopo l’armistizio è stato fatto prigioniero dai nazisti e condotto in un campo di concentramento nella Germania del sud. Ha combattuto contro la fame, le malattie, la vita. È riuscito a sopravvivere fino all’apertura dei cancelli, è tornato a casa, ha salutato la famiglia. Poco dopo, stremato, è morto. Era un ragazzo come Ettore, e la sua storia è quella di tutti i ragazzi e le ragazze che hanno lottato per la liberazione dell’Italia, per distruggere la tirannia nazifascista. I giovani di quel pezzo d’Italia, della stessa Italia che aveva iniziato la guerra dalla parte sbagliata, che è riuscita a combattere e anche a morire stando dalla parte giusta, come ha detto bene Alessandro Barbero in occasione della celebrazione del 25 aprile.
«Sono preoccupato da cittadino per la scomparsa della memoria testimoniale, sia per quanto riguarda la Shoah che per la Resistenza. Ma anche incuriosito. Non so come possa resistere la memoria. Non so nemmeno se ci sono stati momenti storici, negli ultimi secoli, in cui c’è stato un culto simile nei confronti della memoria. Adesso abbiamo la volontà, forse la presunzione, di fare durare le cose per secoli, inviamo dischi allo spazio con la speranza che qualcuno li intercetti. Sicuramente non si deve cadere nel tentativo di farne delle religioni laiche. Penso sarò una battaglia forte, soprattutto italiana, da combattere. Il valore politico e simbolico della Resistenza dell’Italia del centro-nord dev’essere, per me, un valore fondante di questa Repubblica».
«Mi spaventa lo sminuire un’esperienza politica e simbolica in quanto non fu fondamentale. Il 25 aprile non sono arrivati gli americani, l’Italia è vero che non si è liberata da sola ma ha cominciato da sola a combattere contro i suoi nemici interni. E mi spaventa il parlare di nazisti ma non di fascisti come se non ci fossero stati criminali italiani, come se gli italiani non si fossero ammazzati tra di loro».
La letteratura come lotta
Impossibile non pensare al clima che si respira in ambito culturale. L’ultima edizione del Salone del Libro di Torino è stata segnata, ancora una volta, da polemiche sulla parola negata, proibita, silenziata. Si parla di censura dall’alto, di contestazione dal basso. Il caso Scurati ha fatto luce sul controllo asfissiante sul controllo del servizio pubblico: si pensi ai casi sommersi di Jennifer Guerra e Nadia Terranova, invitate, come Scurati, a “Che sarà”, trasmissione condotta da Serena Bortone, i cui monologhi non sono stati reputati adatti al programma; si pensi allo sciopero proclamato dall’Usigrai; si pensi a Tele Meloni o Tele PD.
Cosa può fare la letteratura quando tutto crolla? «C’è sempre stata in Italia un’egemonia di sinistra, con rarissime eccezioni di valore: Vasco Pratolini o Antonio Delfini che si dichiarava camicia nera ma pure antifascista perché i fascisti, secondo lui, erano i peggiori di tutti. Già a quel tempo era difficile avere una voce controcorrente, oggi le cose sono ancora più polarizzate. In politica sembra che si possa dire quasi tutto, nella cultura avverto una paura maggiore, quasi una ritrosia all’esporsi. Quando la politica è sempre più estrema c’è quest’illusione che la risposta della cultura debba essere unitaria. Non amo la letteratura utilizzata come strumento politico anche se c’è chi è riuscito a farla, allontanandosi da una presa di posizione partitica. La letteratura come lotta, però, a me non appartiene».
Davide Coppo
Davide Coppo è nato a Milano nel 1986. Dal 2011 con vari ruoli lavora nella redazione di Rivista Studio. Scrive o ha scritto per diverse pubblicazioni di carta e online. Nel 2019 ha pubblicato un saggio in The Game Unplugged (Einaudi). La parte sbagliata è il suo primo romanzo.