Cronache dai distretti del tessile Made in Italy: «senza la nostra filiera, anche la Francia soffrirà» – interviene Sara Salerno – Hey Foo – sulla crisi dell’artigianato italiano, la delocalizzazione e il fast fashion
La crisi dei distretti del Made in Italy
La filiera del Made in Italy è in difficoltà – non solo il comparto del tessile. «Ho contatti con i distretti della pelletteria nelle Marche, in Campania, in Toscana: tutti – anche i brand del lusso – dichiarano di essere in crisi», inizia a raccontare Sara Salerno, nota sui social come @saraheyfoo, esperta del mondo tessile e product developer.
«Già due anni fa, gli Stati Uniti avevano iniziato a registrare una contrazione post-covid. Si diceva sarebbe arrivata anche da noi. In questo momento gli ordinativi sono fermi. I gruppi come LVMH e Kering, in questa fase di stallo, devono pensare ad alimentare i loro laboratori – dunque non hanno lavoro per la filiera esterna e indipendente. Si rischiano di perdere molti posti di lavoro. Si rischia di perdere un patrimonio di artigianalità che non sarà più rimpiazzato».
Métiers d’Art e le scuole dei grandi brand
«I distretti cercano tecnici di confezione, prototipisti, modellisti, tecnici di produzione, ma anche ragazzi giovani disposti a imparare, con pazienza pazienza – perché ci vuole tempo. Sono ricercate tutte le figure tecniche, spesso poco conosciute. Per queste figure non esistono nemmeno dei corsi».
Alcuni brand negli ultimi anni hanno istituito scuole o corsi di formazione per istruire i talenti che poi entreranno a fare parte dei brand stessi come le Botteghe di Mestiere, di Dolce&Gabbana o LVMH Métiers d’Art. «Per diventare un artigiano occorrono anni di formazione che non può essere solo supportata da organismi privati. La formazione dovrebbe essere strutturata come in Francia, dove è soprattutto pubblica. La Francia tutela i métiers d’art, i mestieri artigianali. Hanno un programma profondo, non solo di sostegno a livello fiscale in caso di crisi, ma anche a livello formativo, cioè hanno delle scuole pubbliche che sono veri e propri licei. È una formazione tecnica che dura cinque, sei, anche sette anni. Sono necessari tutti questi anni per formare un artigiano, non basta un programma di un anno, o otto mesi. E soprattutto non può essere solo privato».
La Francia e le leggi per tutelare la moda europea limitando l’importazione di fast fashion
«I francesi considerano la moda un bene nazionale – a differenza degli italiani. Le leggi francesi sono le più avanzate per quanto riguarda la protezione del sistema moda e potrebbero essere copiate e applicate in altri paesi, soprattutto da noi, che abbiamo un sistema simile. Anche i francesi sono preoccupati per la nostra filiera, perché loro non hanno una vera e propria manifattura, ma producono in Italia. Senza la nostra filiera anche loro si troveranno in difficoltà». Quest’anno la Camera francese ha dato il via libera a un disegno di legge per introdurre una tassa ambientale sui capi prodotti dalle aziende di fast fashion e vieterà alle aziende di fare pubblicità, questo per limitarne l’importazione e tutelare il Made in Europe. Ora è atteso il passaggio in Senato per l’approvazione definitiva dell’emendamento.
Sara Hey Foo, le condizioni dei lavoratori nei laboratori in Cina e Sud-Est asiatico
«Circa quindici anni fa, i primi fornitori di tessuto hanno iniziato a proporre il cotone organico. Si iniziava anche a parlare di biologico nel food e dei danni dei pesticidi. Quando ho iniziato ad approfondire il tema, il passo dalla produzione della materia prima al rispetto dei diritti dei lavori è stato breve: si è iniziato a delocalizzare le produzioni in Cina. Sembrava il paradiso per gli imprenditori: un prodotto che in Italia costava 100 in Cina costava 30. Ho visitato i paesi dove si produce e ho visto con i miei occhi come lavorano».
«Ho trascorso solo poche ore nei laboratori, e già avvertivo malessere per il troppo rumore. Sono stata fortunata, perché ho visitato solo la Cina e la Turchia, paesi considerati tra i “buoni” del fast fashion. In Bangladesh o in India le condizioni sono ancora peggiori».
Sara Hey Foo: il valoref del made in
Il settore tessile produce il 10% delle emissioni di gas serra mondiali e consuma 1,5 mila miliardi di acqua all’anno. È inoltre responsabile dell’inquinamento delle falde acquifere e contribuisce alla diffusione di microplastiche che stanno avvelenando gli oceani e gli esseri viventi, come riporta uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature.
«Non basta avere una fibra naturale, bisogna avere una fibra naturale legata a un determinato Made In. L’Europa ha delle leggi stringenti, in tema di diritti dei lavoratori, e di sostenibilità. Nei paesi meno sviluppati non ci sono leggi che tutelino né il lavoratore né l’ambiente. Pensiamo al Bangladesh, alla Cambogia, al Myanmar: non hanno una struttura politica tale da garantire una protezione ambientale o dei diritti del lavoro. È quindi inutile parlare di sostenibilità e di cotone organico quando si va a produrre in paesi in cui queste garanzie non ci sono. Per questo che è necessario scegliere il Made in. Se davvero vogliamo preservare il nostro patrimonio artigianale, scegliere il Made in Italy è imprescindibile».
«La fibra naturale al suo stato più puro è ruvida. La ruvidità è vista dalle persone che non conoscono bene il mondo dell’abbigliamento come un difetto, ma se penso alla ruvidità penso a uno dei materiali che amo di più e che è considerato ruvido ovvero il lino. Il lino è una fibra versatile e sostenibile. La ruvidità è il ritorno alla natura non lavorata».
Brunello Cucinelli avanguardista in tema di diritti dei lavoratori e sostenibilità della filiera
Secondo Sara Salerno, uno degli esempi virtuosi di brand attenti alla filiera, ai lavoratori e alla sostenibilità è Brunello Cucinelli. «In tempi non sospetti, Cucinelli parlava di filiera del Made in Italy, di valore dell’artigianato, di remunerazione adeguata degli artigiani. Conosco laboratori e fornitori che lavorano per lui e tutti mi confermano che è molto attento nel controllo delle condizioni di lavoro all’interno dei laboratori. La Brunello Cucinelli ha anche programmi di assistenza privata per i propri lavoratori».
Filiera della Canapa in Italia: da essere i primi produttori a zero
L’Italia è stata uno dei maggiori produttori di canapa tessile al mondo. Nel secondo dopoguerra eravamo il secondo produttore di canapa tessile dopo la Russia. Oggi il primato lo detiene la Cina. La canapa tessile è una pianta spontanea che cresce con poco bisogno di acqua in qualsiasi condizione. La fibra biodegradabile che ne deriva ha molte proprietà, tra cui la termoregolazione e la resistenza. Anche le sue applicazioni sono varie, oggi è utilizzata in diversi settori oltre quello tessile: edilizia, carta e automotive.
«Il problema della canapa è legato all’immagine della canapa stessa. Il proibizionismo degli anni Settanta e Ottanta sulla canapa ha impattato negativamente anche sulla canapa tessile. Da parte dei grandi brand è considerata un materiale grezzo e non compatibile con il mondo del lusso. Come aspetto può essere paragonata al lino. C’è poca cultura e poca conoscenza di questo materiale che invece dovrebbe essere utilizzato di più».
Dalla canapa al cotone: differenze di produzione e come scegliere un buon cotone
Al contrario della canapa il cotone richiede grandi quantitativi di acqua e pesticidi per le colture. Non è scontato oggi trovare un cotone di buona qualità e anche sostenibile, bisogna saperlo riconoscere. «Il buon cotone si riconosce dalla lunghezza della fibra. Quelli più pregiati sono il cotone Makò, il cotone egiziano Giza e il cotone Sea Island che è il cotone caraibico – considerato al primo posto per qualità. Per scegliere un buon cotone bisognerebbe sapere la materia prima di base e i produttori non sempre riescono a rivelarla. Un buon cotone – anche se leggero – non è trasparente. Non si riesce a vedere la trama del tessuto, e non è peloso. In mano deve rimanere pieno, devi sentire tanta fibra, anche se è un tessuto leggero. Il buon cotone si stropiccia poco. È meglio preferire un cotone organico rispetto a un cotone non organico: la coltivazione del cotone è impattante, anche per l’impiego di pesticidi. Il cotone organico di per sé non assicura la sostenibilità – il cotone organico made in Italy, sì».
Sara Hey Foo: Dobbiamo cambiare il modo in cui concepiamo la moda
«Deve cambiare il nostro modo di concepire la moda e il consumo della moda stessa. Il fast fashion ci ha convinto che i prezzi giusti siano quelli. Non è così. Quel prezzo è così perché l’altra parte del prezzo lo paga qualcun altro, che sono i lavoratori, che è l’ambiente dove noi viviamo. Capisco che comprare una t-shirt a 100 euro può sembrarci tanto, per gli stipendi che abbiamo – ma se pensiamo a 40 anni fa, l’abbigliamento costava tanto. Lo pagavano a rate. Si comprava meno, uno o due capi a stagione, e si portavano per tanti anni. Era il modo giusto di comprare prodotti – fatti da persone con amore, perché hanno avuto tutto il tempo di curare ogni fase, nelle condizioni migliori»
Sara Salerno – Sara Hey Foo
«Ho studiato economia e ho fatto un master in fashion marketing. Dopo il master ho trovato uno stage in un’azienda delle Marche che faceva denim per altri brand. Lì ho imparato tutto riguardo il prodotto. Chi si occupa dello sviluppo del prodotto è la persona che parla con lo stilista, con il brand e coordina tutte le attività per far sì che quello che lo stilista si è immaginato diventi realtà. Ho iniziato così, mi sono innamorata di questo lavoro e ho cambiato diverse aziende continuando a crescere ed approfondire».