Il primo disegno di legge contro il fast-fashion è francese: cosa manca all’industria tessile italiana per superare la frammentazione della catena produttiva? Politica e moda, un confronto tra Milano e Parigi
A Parigi La Mode è un fatto politico
In Francia la moda è considerata un bene di stato. Si tratta di un dato di fatto supportato da dati storici, quali la fondazione dell’Institut Français de la Mode per volere del ministero dell’Industria, l’ammissione delle sfilate all’interno dei cortili del Musée du Louvre di Parigi, o la conduzione diretta del settore moda da parte di ministri della cultura e presidenti. In un solido intreccio tra moda e potere, tra costume e riconoscibilità sociale, tra ensemble e arte, la mode è un fatto politico.
In quanto produttrice di geni creativi – in Francia la dipartita di Yves Saint Laurent è stata salutata come un lutto nazionale – e di alti fatturati, la moda francese è interessata da designer emergenti e da marchi di lunga data, i quali spesso scelgono Parigi piuttosto che altre capitali perché considerata il palcoscenico più alto e meglio in vista. A Parigi la settimana della moda dura dieci giorni – di contro ai sei di Milano – con una presenza di addetti stampa e investitori internazionali che non ha pari. Non c’è quindi da stupirsi se il primo disegno di legge contro l’instant fashion, ovvero la moda usa e getta, ha visto i natali proprio qui.
Milano, la moda, il business della velocità
E perché non altrove? O meglio, perché non in Italia, culla del tanto acclamato Made in Italy? La Milano della moda è figlia del fare e del saper fare tipicamente italiani, dell’imprenditoria nascente degli anni Ottanta, della Milano da bere, «dell’Amaro Ramazzotti, l’amaro di chi vive e lavora», di Giorgio Armani, Miuccia Prada, Gianni Versace, Krizia e Romeo Gigli. Campioni di una moda, quelli citati, che hanno contribuito a dar forma ad un’industria attenta al prodotto e alla sua vendibilità, quali fili imprescindibili di una narrazione creativa da monetizzare. Lontana dalla teatralità dei francesi Thierry Mugler e Christian Lacroix, la moda milanese guarda alla commerciabilità delle collezioni, rispondendo alle esigenze di una classe borghese che intende vestire bene e comodamente. Il boom di Milano si deve quindi a figure come Walter Albini e Gianfranco Ferré, i quali hanno immesso creatività in dinamiche industriali allora obsolete, e alla vicinanza con manifatture e opifici, che hanno permesso di mantenere una tale innovazione all’interno del circuito italiano.
Il discorso regge fino agli anni Duemila, quando la delocalizzazione, ovvero il trasferimento del processo produttivo, o di alcune fasi di esso, in aree geografiche distanti, non cambia le carte in tavola: la qualità produttiva italiana non è più adeguata allo sviluppo di grandi progetti, e il tessuto industriale si spezza. Così frammentata, l’industria italiana sostiene a malapena il confronto con i conglomerati del lusso francese e, in particolare, con il duopolio Kering-LVMH. Questi, d’altra parte, forti di una potenza a sette zeri – Bernard Arnault e François Pinault, CEO di Kering ed LVMH, sono tra gli uomini più ricchi del pianeta – non hanno difficoltà a inserirsi nel discorso politico, in difesa dell’imprenditoria della moda francese.
Una definizione di tossicità nell’età della moda veloce
Così, mentre la sobria eleganza milanese, per lungo tempo immagine di una moda intellettuale, è stata in gran parte sostituita dal business della velocità, guidato dall’unico fine di vendere, e in cui è difficile riconoscere i segni del DNA italiano, quella parigina è entrata in politica. Su tale ingresso, un’indagine della piattaforma BoF si è espressa con il titolo sintetico, quando rumoroso, «Cosa accadrebbe se la moda fosse tassata come le sigarette?», laddove il comune denominatore tra la moda veloce e il business del tabacco è l’aggettivo ’tossico’.
Per comprendere quando e in che misura la moda può essere effettivamente tossica come il fumo di una sigaretta, è imprescindibile comprendere la semantica del termine: alla voce ’tossico’, l’enciclopedia della lingua italiana Treccani riporta una definizione tratta dal linguaggio medico, a indicare tutto quanto appartiene, deriva o ha rapporti con un qualsiasi agente di intossicazione. Rimanendo nel campo delle scienze, la caratteristica dell’essere tossico sarebbe quella di provocare, a determinate dosi, danni e rischi anche gravi, acuti o cronici, a carico di organismi viventi ai quali siano stati somministrati o con cui siano venuti in contatto. Tra gli esempi, si citano farmaci, diserbanti, pesticidi, antiparassitari e gas.
Risalendo dalla T di ‘tossico’ alla M di ‘moda’, troveremo che quest’ultima pare avere poco a che fare con agenti di intossicazione, lesioni croniche, diserbanti, pesticidi e quant’altro. Benché aggiornata sui neologismi che l’età veloce assimila costantemente, l’enciclopedia tratta – ancora – della moda come un fatto di forma, cita la «sobria eleganza milanese» mentre di scienze non parla affatto.
Consumo vistoso e spreco vistoso: il modello a cascata di Veblen
Altrove, la voce ‘moda’ è citata dalla stessa Treccani in una lunga analisi sociologica, il cui punto di partenza è un volume del 1899, La teoria della classe agiata, ad opera dell’economista e sociologo statunitense Thorstein Veblen. Secondo la teoria, visionaria all’epoca e oggi entrata di diritto nel canone degli studi sociologici, la moda è l’espressione più vistosa della ricchezza delle classi agiate. Quest’ultima si declinerebbe, a detta di Veblen, nei fenomeni del consumo vistoso e dello spreco vistoso. Alla base del pensiero di Veblen vi è un modello a cascata, il quale implica che la moda si diffonda capillarmente dall’alto al basso. Una volta che i gradini più bassi della scala sociale si sono appropriati, per imitazione, delle mode dei ricchi, queste sono già passate, in un costante rinnovamento di sé stesse, necessario a mantenere le distanze tra chi sta in alto e chi sta in basso. È così che si formano nuovi consumi vistosi e sprechi altrettanto vistosi: succedeva nel 1899 e succede ancora oggi, benché a tale meccanismo non sia mai stato ufficialmente associato il termine ’tossico’. Almeno fino ad ora.
Instant fashion e tossicità: il nuovo disegno di legge proposto dalla Francia
L’associazione si deve all’Assemblea nazionale francese, dove a marzo 2024 è stata approvato la proposta di legge n. 2129 per ridurre l’impatto ambientale dell’industria tessile. La soluzione avanzata – che deve ancora passare dal Senato per diventare legge – è di tassare la moda come si fa con le sigarette, anch’esse ritenute non tossiche fino a qualche decennio fa. Il disegno di legge non riguarderebbe poi la moda tout court, ma solo l’instant fashion, ovvero la moda istantanea, quella che corre così veloce nel suo percorso a cascata da non fare in tempo ad attaccarsi sulle pagine dell’enciclopedia Treccani. Si tratta della moda che nessun testo accademico si sognerebbe di citare – se non per parlarne in termini di consumo – e che nessun manuale riporterebbe mai in un indice di storia della moda: ne fanno parte, tra gli altri, Shein, Temu, Zara ed H&M, realtà note per riprodurre istantaneamente quelle mode che, con lo stesso modello a cascata, discendono dalle passerelle per introdursi in forme replicate, di minor qualità e a basso costo, nelle strade popolari. Il tutto a riconferma che dai tempi di Veblen, se qualcosa è cambiato, è in peggio.
Le implicazioni del disegno di legge made in France: cos’è fast e cos’è slow?
A invertire la rotta ci starebbe quindi pensando la Francia, con una pianificazione tanto rapida quanto l’uscita di una nuova collezione su Temu all’indomani di una sfilata di Gucci per offrirne un mal riuscito calco. Ultimo di una serie di nuove regolamentazioni dirette all’industria della moda, il disegno di legge è stato infatti promosso con l’unanimità dei consensi, stabilendo un unicum nella storia: come sottolineato dal ministro per la transizione ecologica Christophe Bechu, la Francia sarebbe infatti il primo paese al mondo a «legiferare per stabilire dei limiti alla moda ultra veloce». Se fino a questo momento si è parlato di codici di trasparenza, misure di progettazione ecocompatibile nei prodotti tessili, abbattimento delle emissioni, certificazioni tessili e report di sostenibilità nei termini di incentivi statali – dunque, nulla di imposto o sanzionabile – questa è la prima volta che se ne parla in termini di leggi e sanzioni.
Venendo allo specifico delle misure previste, a partire dal 2025 i produttori di fast-fashion dovranno informare i consumatori in merito all’impatto delle loro produzioni, sarà fatto loro divieto di pubblicizzare i relativi prodotti e per ciascuno di essi sarà prevista una tassa. Il sovrapprezzo dovuto a quest’ultima sarà di cinque euro a capo, con una previsione di dieci euro a capo entro il 2030, con la clausola che esso non superi il 50% del prezzo di cartellino. Se da una parte la desiderabilità del prodotto, che nel caso del fast fashion è strettamente legata al prezzo, andrà calando, dall’altra i proventi della tassa verranno impiegati per sovvenzionare aziende impegnate nella sostenibilità, così da garantire una più equa competizione sul mercato del tessile tra modelli a rapido consumo e modelli a economia circolare.
Si tratterebbe dunque – così l’hanno definita le pagine online di BoF – di una «tassa sul peccato», volta a scoraggiare i consumatori e, sul lungo periodo, a indebolire i cardini di un sistema basato su grandi volumi di vendita ed etichette inferiori alle due cifre. Se tuttavia il sistema di tassazione è piuttosto chiaro, quel che ancora appare nebuloso è il soggetto cui si rivolge. Ovvero, quali sono i criteri per stabilire cosa è fast fashion e cosa non lo è – o, potremmo dire, cosa è slow fashion? Benché gli estremi di una linea immaginaria che da un vertice conduce all’altro – ovvero che dalle quarantotto collezioni annuali di Shein porta alle quattro collezioni annuali di un maestro dell’artigianalità quale Dries Van Noten – siano evidenti, su quanto risiede nel mezzo rimane ancora un punto interrogativo. Stando alle argomentazioni rese note fino ad ora, ad ogni azienda verrà assegnato un punteggio sulla base di una serie di criteri: il numero di prodotti messi sul mercato, la qualità e la provenienza dei materiali utilizzati, il ciclo di vendita dei prodotti e la loro tracciabilità. Tirata una riga al termine dell’equazione, chi non supererà i limiti del conteggio si troverà a pagare la temuta «tassa sul peccato».
La parola ai brand: nel silenzio generale chi si fa sentire è Shein
Tra i marchi passibili di sanzioni, per ora l’unica a farsi sentire è stata Shein. Quest’ultima si è infatti espressa a propria difesa sostenendo che la vasta gamma di prodotti venduti viene messa sul mercato a piccoli lotti, corrispondenti alla domanda. Ne risulterebbe dunque una percentuale di invenduto vicina allo zero, di fronte – ma questo non viene ammesso da Shein – a tonnellate di prodotto venduto, usato e gettato. La seconda argomentazione portata in campo da Shein riguarda i consumatori, il cui potere di acquisto verrebbe fortemente limitato dall’aumento dei prezzi.
Tuttavia, uno degli obiettivi del disegno di legge sarebbe proprio quello di modificare le abitudini dei consumatori, e non tanto delle fasce più povere – non sono infatti queste ultime ad alimentare il mercato del fast fashion – quanto della fascia media e dei loro armadi ricolmi di abiti senza qualità e senza futuro. Di contro all’iper produzione e alla performatività a tutti i costi, le aziende saranno quindi citate a giudizio da un’idea di moda più articolata, dove accanto alla parabola a senso unico produzione-vendita si affiancano nuovi termini: qualità, pensiero, sostenibilità, trasparenza, riciclo. Naturalmente, per alcune di loro rimarrà più conveniente pagare una tassa piuttosto che piegarsi a un diverso modello di business. Mentre per altre sarà forse l’inizio di una parabola effettivamente nuova, di una moda non più tossica.
A che punto siamo in Italia?
Il Manifesto della sostenibilità per la moda italiana promosso dalla Camera Nazionale della moda Italiana (CNMI) risale al 2012. Si tratta di un decalogo aspecifico, che oggi, a leggerlo, imbarazza per la banalità dei contenuti: Disegna prodotti di qualità che possano durare a lungo e minimizzino gli impatti sugli ecosistemi è il primo punto, seguito da utilizza materie prime, materiali e tessuti ad alto valore ambientale e sociale. Il tono è quello di un manuale da buon cittadino, con prescrizioni e suggerimenti, senza dati né cifre. Privo di alcun valore politico, il manifesto non fa alcun riferimento ai perché o alle conseguenze dell’agire diversamente da quanto suggerito. Nella sezione Sustainability della pagina online della CNMI le news non vengono aggiornate dal 2022, mentre l’ultima tavola rotonda sul tema sostenibilità risale al 2019.
La CNMI, impegnata nella protezione, nel coordinamento e nella promozione della moda italiana tratta – questo va riconosciuto – di sostenibilità dal 2010, quando ancora in pochi lo facevano. Ma nel tempo non ha saputo aggiornarsi, né assumere una rilevanza tale da entrare nel discorso politico. E intanto, non molti sembrano aver seguito i suggerimenti del suo decalogo: la catena produttiva delle imprese italiane è oggi frammentata tra territori locali ed esteri, mentre la nostra è diventata in gran parte una nazione di terzisti, ovvero di aziende che producono per altri. Rimane la speranza che dalla Francia si generi un modello di influenza positiva: che, in sostanza, si vada oltre a manifesti obsoleti, decaloghi invecchiati, green carpet e Green Awards dove le case di moda vengono premiate per capsule collection in cotone biologico, mentre le collezioni principali sono in poliestere.