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Polisacchi e ipocrisie di moda: il caso Inditex–Zalando

I 180milioni di sacchetti di plastica monouso prodotti annualmente dal settore moda forse non sono il vero problema – le controversie del caso Inditex-Zalando, gli obiettivi di Zara e lo studio di Patagonia. 

Materie plastiche e ipocrisie di moda. Il caso Inditex sui sacchi sintetici monouso. 

Dai primi anni Novanta ad oggi l’incremento nella produzione di fibre ecosostenibili quali lino, canapa, bambù, lana e cotone biologico conta cifre irrisorie. Al contrario, la produzione di fibre sintetiche quali nylon, viscosa e poliestere è triplicata. L’industria di moda è costruita, ancora, su una montagna di plastica. Non si tratta solo delle materie plastiche di cui sono fatti i vestiti, ma anche di quelle con cui sono imballati. I sacchi di plastica monouso – i cosiddetti polisacchi – sono una costante nel commercio di moda, dove prevengono il danneggiamento dei vestiti nel viaggio dal produttore al consumatore. Lo si  vede quando si acquista on-line, ma non mancano nemmeno quando gli abiti sono appesi a grucce di legno riciclato su relle in acciaio – l’acciaio è un materiale sostenibile al 100% in natura. Anche in questo caso, prima di arrivare alle relle, gli abiti erano avvolti in sacchi di plastica monouso. 

Qualcosa sta cambiando: per andare incontro all’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, il colosso spagnolo Inditex ha annunciato l’eliminazione delle buste in polietilene. A questa decisione si oppone Zalando, uno dei maggiori partner di Inditex, sottolineando come la sostituzione con un’alternativa in carta non ridurrebbe che in minima parte l’impatto ambientale del packaging. In effetti, uno degli ultimi studi pubblicati da Bloomberg ha riportato che il packaging costituisce all’incirca il 5% dell’impronta di carbonio di Inditex, mentre oltre il 70% proviene dalla produzione degli stessi abiti. Le buste in polietilene, inoltre, prevengono il danneggiamento dei vestiti, e quindi il pericolo che si aggiungano troppo presto alle montagne di spazzatura dell’industria di moda. È per questo che anche un brand ecosostenibile come Patagonia continua ad utilizzarle. Il braccio di ferro tra Inditex e Zalando si ridurrebbe così ad un’ipocrisia di moda. 

La filiera dei polisacchi e il presunto abbandono delle materie plastiche

Chi cerca conforto in grucce di legno riutilizzabile, shopping bag di carta e fibre riciclate, comprando in negozi dove l’unica traccia di plastica sembra essere quella della cassa elettronica, dovrebbe anche sapere che il problema non è la plastica da imballaggio, ma la plastica che indossiamo. Fino pochi anni fa la questione passava in sordina: lo shopping online non era un terreno navigato, e la questione di come i capi giungessero in negozio semplicemente non si poneva. Solamente gli addetti ai lavori erano consapevoli degli strati di plastica in cui i capi venivano consegnati. Oggi, con l’aumento dell’online dovuto alla fase pandemica, quegli strati di plastica sono sotto agli occhi di tutti. Ed è qui che va cercata l’origine del braccio di ferro tra Inditex e Zalando. 

È un fatto globale che i rivenditori si affidano a sacchetti di plastica per proteggere gli indumenti dall’umidità nella catena logistica che dal laboratorio tessile li conduce al negozio o a casa del compratore. La piattaforma Fashion For Good ha calcolato che ogni anno si producono in media centottanta milioni di sacchetti di plastica monouso solamente per l’imballaggio di indumenti. Secondo la stessa piattaforma, sebbene la maggior parte dei sacchetti sarebbe effettivamente riciclabile, la destinazione più usuale è la discarica o, ancora peggio, gli inceneritori, gas tossici annessi. Non appena gli indumenti così imballati raggiungono i negozi, i sacchetti di plastica vengono infatti rimossi, gettati e sostituiti con confezionamenti di altro materiale, come cartone riciclato o carta. Per quanto lo spazio loro riservato sia il dietro le quinte dei negozi, i polisacchi rimangono parte integrante del processo. 

Perché il problema sono le borse di nylon che indossiamo e non le borse di plastica in cui gli abiti ci sono consegnati –  il caso Patagonia

La questione Inditex-Zalando risale al 2019, quando Inditex ha reso pubblico l’impegno volto ad eliminare le plastiche monouso entro il 2023. L’impegno includeva la rimozione di ganci di plastica, adesivi, rivestimenti in cellofan e imballaggi di plastica. Zalando, dal canto suo, si è opposto all’iniziativa, affermando l’impossibilità di eseguire le proprie operazioni logistiche senza fare uso di polisacchi, oltre che l’inutilità della cosa. Ma chi ha ragione? Si è parlato di lotta tra titani, ma sarebbe forse più corretto parlare di lotta fra i due maggiori player della rivendita di stracci. Se l’utilizzo di polisacchi è oggi sotto gli occhi di tutti – motivo per cui Inditex ne vorrebbe l’eliminazione – quello che sfugge è che la maggior parte delle fibre degli abiti prodotti da marchi distribuiti da Inditex proviene da tessuti artificiali, e che la loro fabbricazione comporta processi chimici più inquinanti di cento ottanta milioni di polisacchi.

Come spiegato in Gli imballaggi di plastica di Patagonia: una ricerca sulle sfide della spedizione di indumenti, persino un brand concretamente impegnato in sfide per la sostenibilità ambientale come Patagonia ha scelto di mantenere i polisacchi. O almeno finché non si troverà una reale alternativa. Lo studio interno condotto da Patagonia ha rilevato come nel 30% dei casi gli abiti non imbustati presentassero deterioramenti. Queste le conclusioni dello studio: 

«Per valutare come Patagonia potesse ridurre la plastica nella catena di fornitura abbiamo condotto diversi test presso il nostro Centro di Distribuzione (DC) e intervistato  clienti. Attraverso questo studio, abbiamo determinato che i polisacchi sono fondamentali per assicurare che gli indumenti rimangano puliti nel percorso dalla fabbrica al Centro di Distribuzione. Se eliminassimo l’uso di polisacchi, gli indumenti sarebbero danneggiati, con conseguenti costi finanziari e ambientali. Per realizzare ogni prodotto vengono impiegati energia, acqua e risorse, e per questo vogliamo che siano indossati. Un prodotto danneggiato che non può essere indossato ha un costo ambientale di gran lunga superiore rispetto alla produzione di un sacchetto di plastica». Infine, lo stesso Inditex non ha promesso di eliminare completamente la plastica, ma solamente quella monouso, riciclando i tanto avversati polisacchi. 

Poca chiarezza anche da Zara. Un altro caso all’interno del gruppo Inditex

I dati ci informano che ogni settimana vengono disegnati cinquecento nuovi prodotti a marchio Zara. Il brand, che come Zalando fa capo al gruppo Inditex, vanta più di tremila negozi in tutto il mondo, con un ricambio di abiti che non va oltre la scadenza del mese. Come suggerito qualche anno fa dall’analisi di Sarah Spellings nelle pagine di The Cut «Zara è associato a indumenti destinati a rimanere per un buon periodo, non per un lungo periodo». Gli obiettivi di sostenibilità annunciati da Inditex nel 2019 hanno investito anche Zara, che, a differenza di Zalando, si è resa parte attiva degli stessi. Entro la scadenza del 2025 Zara intende eliminare ogni sostanza nociva lungo la filiera, avviare corsi di formazione per i dipendenti sui temi della sostenibilità, eliminare le fibre prodotte in foreste a rischio di estinzione e azzerare i rifiuti destinati alle discariche. 

Se il fatto che Zara discuta pubblicamente di sostenibilità dimostra quanto tale percezione sia fondamentale per il brand ai fini della popolarità e della redditività, dall’altra i dubbi rimangono. E non pochi. Già il fatto che Zara, un’azienda che è parte integrante della mancata di eticità del fast fashion, si improvvisi soluzione al problema senza modificare radicalmente il proprio modello di business è indice di poca chiarezza. Poi, va menzionato il buco non irrilevante negli obiettivi di sostenibilità umana: le considerazioni in merito ai salari di chi produce vestiti sono totalmente assenti. Inoltre, un vestito in poliestere riciclato, indossato un paio di volte e poi gettato via, non è altro che un vestito in poliestere in una discarica. Infatti, una volta trasformato in tessuto, il poliestere non è più riutilizzabile, con la doppia aggravante che il processo di trasformazione comporta emissioni di COpari ad una tonnellata e mezzo, e che le microfibre rilasciate ad ogni lavaggio contribuiscono alla contaminazione degli ecosistemi acquatici. Infine, è passata solo una settimana da quando l’ultimo abito in viscosa di Zara è andato virale sui social e, per quanto venga spacciata come scelta sostenibile, anche nei casi in cui la materia prima proviene da fonti certificate – fatto che si verifica solo nel 14% dei casi – ogni chilogrammo di fibra di viscosa richiede una media di cento litri d’acqua. Quantità ben lontane dai parametri della sostenibilità. 

Moda etica: esiste una soluzione definitiva?

Inditex non è da considerarsi la prima né l’unica causa dell’impronta ecologica dei prodotti della moda. La causa principale va ricercata nelle abitudini dei consumatori, nella fame di comprare al ritmo delle nuove uscite – che nel caso di rivenditori online quali Shein e Temu è quattro volte più veloce di Zara e Zalando. La filosofia del fast-fashion si fonda sull’inseguimento delle nuove tendenze in passerella. Per stare al passo con le collezioni da sfilata, che nella maggior parte dei casi richiedono mesi di manodopera, il fast-fashion utilizza materiali a basso costo e rapidi cambi di stock. 

Per ogni Maison che propone due collezioni l’anno, Zara ne propone dodici, Shein e Temu quarantotto. Dal 1995 ad oggi la produzione pro-capite di fibre tessili è aumentata di oltre l’80%. Ridurre la produzione – e aumentarne i livelli – sarebbe forse una soluzione più efficace rispetto ad ingaggiare una sterile faida con i propri partner contro l’uso dei polisacchi. Altre soluzioni interne contro lo spreco possono essere un maggiore controllo dell’inventario e una misurazione precisa del venduto e dell’invenduto. In tal modo si eviterà di dover correre ai ripari con saldi e ribassi, aumentando così l’appetito dei consumatori. Infine, osservando la prospettiva dal lato opposto, ovvero quella del cliente, la soluzione è una: comprare meno. 

Stella Manferdini

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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