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Lezioni di pianoforte, lezioni di vita

Lezioni di pianoforte: una tradizione per i bambini delle famiglie borghesi, un’urgenza per chi aveva talento e sognava troppo – solfeggio, esercizi a tempo, la vita

Il Conservatorio di Milano, il Leonardo da Vinci e il Collegio delle Fanciulle: lezioni di pianoforte e latino, famiglie abbienti e borghesi

Un giorno, avresti provato a dare l’esame di teoria e solfeggio al Conservatorio di Milano. Si diceva fosse la scuola di musica più difficile e rinomata al mondo. Non ce l’avresti mai fatta: eri solo un bambino viziato e qualunque – le elementari in Via Della Spiga. Il liceo scientifico al Leonardo da Vinci – pochi metri distanti dal Conservatorio – tra le due scuole, il Collegio della Fanciulle. Studiare poteva essere una questione di fatica, passione, sudore e panico – ma non di simpatia. Il preside non voleva dialogo con la famiglia. Insieme ai primi peli pubici, si scopriva l’orgoglio della scuola pubblica – iscriversi alle scuole private significava ammettere di non essere capace a cavarsela da solo. Sei soltanto un borghese – suona ancora dispregiativo. Non per forza un insulto, ma comunque ti sto liquidando.

Sembra un flash. Oggi, i genitori pensano che i loro figli possono risparmiarsi l’incubo che fu lo studio del latino – ritengono sia inutile. I ragazzi non devono più sfogliare e risfogliare un vocabolario di due chili – che prima di cercare si sforzino a sventrare quello che hanno appreso. Solo ieri, presentando un libro a Erba, un’insegnante di lettere ammetteva come le indicazioni pedagogiche non prevedano più l’istitutore severo di fronte al quale mi tremavano le gambe al suono dei passi sullo scoccare dell’ora. 

In un romanzo del secolo scorso, le lezioni di pianoforte sono una prerogativa di bambini nati in famiglie abbienti, il salotto buono e la casa al mare. Un pianoforte a muro, di solito in corridoio o in anticamera. Il nonno commendatore era nato prima della Seconda Guerra Mondiale, aveva iniziato a lavorare negli anni Cinquanta, durante il Boom Economico. Suo figlio, ovvero tuo padre, era uno yuppie – aveva trent’anni negli Anni Ottanta. Giacca e cravatta a prescindere, fino a Tangentopoli. Tu, figlio di uno Yuppie, andavi a scuola negli anni Novanta. Seguivi il catechismo, una volta alla settimana – ma niente oratorio. Andavi a lezione di tennis, giocavi nella squadra di pallavolo a scuola. I compiti li facevi da solo. Avresti aspettato le otto e mezza quando mamma tornava dallo studio – prima si cenava, poi ti avrebbe dato retta e avrebbe trovato quell’errore in algebra per il quale il tuo risultato dell’espressione non corrispondeva a quello del libro di testo. Milano è una città borghese. I nobili principi li lasciamo a Roma. 

L’insegnante di pianoforte, le lezioni, la matita appuntita, la posa, la mano sulla tastiera

La matita lavorata dal temperino – l’insegnante di pianoforte la teneva puntata in alto, con la punta a pungere il palmo della mano. Il polso doveva rimanere sollevato; le ultime falangi toccavano il pianoforte quasi ad angolo retto. La posa, prima di tutto, la posa: la schiena dritta mai rigida. Il braccio morbido. La mano doveva crollare sulla tastiera, come fosse stanca, come se tutta l’energia si ritrovasse solo nei polpastrelli. Il corpo doveva riuscire a muoversi, una sorta di danza, con misura e riserbo, sulla tastiera. L’insegnante di pianoforte ti spiegava la logica, e la ragione – la matita appuntita a pungere il palmo della mano non te l’avrebbe messa – come altri avevano invece fatto a lei, da bambina. 

Gli spartiti e gli esercizi: Beyer, Hanon, pubblicati da Ricordi

Gli spartiti erano pubblicati da Ricordi: i libri per lo studio in carta ruvida, i bordi color panna e il fondo arancione spento. Il primo volume di esercizi era il Beyer – come sottotitolo recitava: Scuola Preparatoria di Pianoforte per giovani allievi. Una reminiscenza da libro Cuore di De Amicis – quando la scuola era prima di tutto un campo dove per la prima volta incontravi l’interrogazione, il castigo, il successo e l’umiliazione. Prove generali di vita reale così che, presto un giorno fuori dalla classe e lontano dai banchi, i tagli in pancia potessero sembrarti solo schiaffi in faccia. Oggi sembra che in classe, i bambini debbano incontrare un ambiente empatico e costruttivo – comunque, continuando a chiamarla scuola.

Alle elementari si facevano le operazioni, forse le frazioni – e i pensieri per un diario della domenica, il riassunto di una novella letta ad alta voce non più di due volte, i primi temi. A otto anni, un bambino aveva già cominciato a studiare il pianoforte. 

L’intero diviso in quarti, il tempo – la costruzione della scala, il pentagramma. I primi tentativi di segnare una chiave di violino erano ritratti astratti di un ragno. La chiave di basso, per la mano sinistra. Gli esercizi del Beyer, una settimana dopo l’altra – dovevi studiare le due mani, una alla volta – poi unirle. Il metronomo, prima lo accendevi meglio era: da lì dividevi l’ottavo, il sedicesimo. Durante la lezione, l’insegnante alzava la velocità del metronomo di qualche punto. Oltre al Beyer, lo studio della scale – a moto retto, a moto inverso – solo qualche anno dopo sarebbero arrivate le successioni per terza e per sesta. Un nuovo libro, si aggiungeva – era l’Hanon – e qui il sottotitolo recitava: il pianista virtuoso.

Per Elisa, La Marcia Turca di Mozart: il percorso della 54 dal centro a Viale La Foppa

Tutti imparavano Per Elisa – la base fondante di ogni educazione borghese che si rispetti. Erano gli anni delle medie – oltre a Per Elisa, avevi imparato la melodia dell’Inno di Mameli e quella della pubblicità della pasta Barilla – il pezzo di Vangelis che si poteva sintetizzare in una variazione sulla scala di do maggiore su un arpeggio. Saresti passato alla Marcia Turca di Mozart, per poi arrivare al liceo con le invenzioni a tre voci di Bach.

A scuola, suonava la campanella dell’una: mangiavi nella mensa vicino al cortile, poi ti fermavi per un poco al doposcuola – alle tre uscivi, così che potevi prendere l’autobus. A undici anni giravi per Milano, conoscevi a memoria i percorsi della 54, che dal centro di portava in Viale La Foppa. Sulla schiena, lo zaino blu e verde dell’Invicta, dentro i quaderni e i libri – gli spartiti e l’agenda dove l’insegnante di pianoforte tiene memoria degli esercizi che ti ha assegnato e che tu ogni giorno, un’ora al giorno, negli ultimi sette giorni, hai ripetuto. Non è vero – un brivido giù per la schiena – questa settimana hai bucato ben quattro giorni su sei – avresti fatto finta di niente, in qualche modo te la saresti cavata. La preoccupazione era il solfeggio.

Le lezioni di pianoforte erano lezioni di vita. Imparavi a ritagliartela, quell’ora, tutti i giorni – oltre ai compiti di scuola, oltre allo sport e alla squadra. Imparavi cosa fosse il rigore. Imparavi a controllare le tue mani. Imparavi a contare il tuo tempo, da solo – il ritmo simile, ma non uguale, al battito del cuore. Da solo, tu davanti alla tastiera: potevi studiare il pomeriggio, quando in casa non c’era nessuno – verso sera, quando il papà tornava dall’ufficio, non aveva alcun desiderio di sentire strimpellare a ripetizione un passaggio dove le tue dita inciampavano. Ripetevi, riprovavi, ancora e ancora fino quando le dita non si scioglievano – le tue dita goffe diventavano lunghe, leggere e veloci. Imparavi la solitudine di ogni esercizio. (In libreria, c’è il nuovo libro di Ian McEwan).

Le Nove sinfonie di Beethoven, Chopin e l’Assedio di Varsavia

Presto avresti saputo suonare quegli spartiti con titoli che ti sembrano vite altrui, Al Chiaro di Luna. Avresti un giorno saputo suonarle tutte, le Nove sinfonie che Beethoven compose nonostante stesse perdendo l’udito. Avresti saputo suonare Chopin, i suoi valzer dissonanti e l’Assedio di Varsavia – la città sotto fuoco, Chopin non avrebbe smesso di comporre. La musica è la più bella espressione dell’animo umano – ero solo un bambino di otto anni, ed è questo che imparai durante le lezioni di pianoforte con la mia insegnante, in via Lanino.

Elena Grando Marson, la mia insegnante di pianoforte

Non ho mai conosciuto la tua, ma la mia insegnante di pianoforte si chiama Elena Grando. Da sposata, Elena Marson. Quel cognome mi piaceva, Marson, glielo dicevo da bambino, mi sembrava così musicale – Elena rideva, un sorriso spalancato, mai soffuso – c’era sempre una battuta che sapeva di dolcezza. Mi rispondeva un po’ civetta, che suo marito lo aveva sposato per quel cognome, mica per altro – e allora, quando rientrava, lo chiamava così, Marson, io ridevo – sembrava lo stesse ancora corteggiando come al primo sospiro.

Le mie lezioni si prolungavano oltre le otto di sera – oltre agli esercizi, chiacchieravamo, parlavamo – santo cielo, quanto parlavamo. La sua calligrafia era un disegno, le chiedevo come faceva a scrivere così veloce con quel suo modo per me così bello – mi spiegava che non devi staccare la penna dal foglio, durante una parola, legare le lettere una all’altra e i punti sulle i e i cappelli delle t, li metti dopo. Le raccontavo tutto, le dicevo tutto – con lei, avevo scoperto cosa volesse dire ascoltare, sia la musica, sia me stesso. Mia madre era gelosa – ammetteva con le sue amiche che io mi confidavo più con la mia maestra di pianoforte che con lei. Era vero. Elena riusciva a trasmettermi la tranquillità, e non solo quella che serviva per imparare Schubert. 

Poco tempo fa, come ogni rondine, Elena è volata via, nel cielo sbagliato – comunque il nostro.

Carlo Mazzoni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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