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Le scenografie di Sanremo secondo Gianni Biondillo – nel 2024 Las Vegas rules

Gaetano Castelli non lo ferma più nessuno – la scenografia di Sanremo 2024 in stile Las Vegas: in fondo è giusto così, ogni emozione dev’essere eccessiva. Tanto dura solo una settimana, e poi ci dimentichiamo di tutto

Gianni Biondillo sulle scenografie di Sanremo, dal 1951 al 2024

Forse bisognerebbe avere il coraggio di dircelo. Così come dimentichiamo sistematicamente chi ha vinto lo scorso Sanremo, o quello dell’anno precedente (forza, senza andare a controllare sul cellulare: chi l’ha vinto?) altrettanto ci dimentichiamo com’erano le scenografie della kermesse. Sanremo è una curiosa calamita che attrae tutti i discorsi della Nazione, più di guerre, politica, calamità, ma lo fa per un paio di settimane l’anno. Finita la manifestazione resettiamo tutto. Le polemiche sugli esclusi, o i vincitori, e tutto il bailamme che ci ruota attorno, tanto quanto ci appassionano altrettanto, vengono dimenticate subito dopo. Ché, sulle scenografie di polemiche se ne sono fatte a iosa. Bella quelle di quest’anno, pessima quella dello scorso, e così via. Insito: ve le ricordate per davvero? (tranne, s’intende, i pochi fanatici feticisti che imperversano sui social).

Così come le canzoni ci raccontano la storia di un’Italia popolare – anzi: nazional-popolare – anche le scenografie ci spiegano come sia cambiato il nostro gusto nei decenni. C’è una storia da raccontare, insomma. Dapprima, ad essere sinceri, nessuno se ne occupava. D’altronde il Festival nasce alla radio, di come fosse il palco della sala delle feste del Casinò della città rivierasca non interessava a nessuno. Palco piccolo, scomodo, adatto a contenere orchestra e cantanti e nulla di più. Poi arrivò a fine anni cinquanta la televisione. Una televisione, rammento, ben educata, morigerata, in bianco e nero. Bastava far campeggiare il logo della RAI in testa al proscenio e mettere un po’ di fiori in giro per assolvere al compito. 

La scenografia di Sanremo prevede la scalinata per la prima volta nel 1964, e diventa una costante

Il Festival stava prendendo sempre più spazio nel cuore degli italiani. Se spettacolo doveva essere, che lo fosse fino in fondo, compresa la scenografia. Che usa per la prima volta la scalinata per l’ingresso dei cantanti, nel 1964. Ottima strategia per costruire inquadrature più dinamiche, figlia però di una tradizione tutta teatrale, basti pensare alle memorabili discese dall’empireo di Wanda Osiris, detta la Wandissima.

Sta di fatto che la scala, assente e presente durante gli anni, diventa una costante, un marchio di fabbrica del Festival, una costante linguistica. Le scenografie cercano di adeguarsi al gusto nuovo, si ammodernano. La più bella di quel decennio è quella dello sfortunato 1967, l’anno del suicidio di Tenco. Una scenografia fatta di pannelli traforati da bolli che, inquadrata in posizioni differenti, creava un effetto optical al passo con i tempi. Noi l’avevamo vista in bianco e nero, come sappiamo, ma in realtà i pochi fortunati seduti a teatro ne ammirarono anche il color granata che la rendeva ancora più estrema.

Il Festival trasloca in quella che diverrà la sua sede naturale, il Teatro Ariston. Era il 1977

Celentano nel 1970 porta sul palco anche il coro. Si stava stretti su quel palco, non c’era molto spazio per la scenografia. Per dirla con un premio Nobel, the times they are a’ changin. Nei tumultuosi Settanta Sanremo è vista come una manifestazione passatista, fuori dal tempo. Accusa che da quel momento s’è portata dietro sempre, come un’infamia, senza volerci rendere conto quanto il Festival ci ritraesse, e ci ritrae, difetti compresi, più quanto volevamo e vogliamo ammettere.

L’allestimento di Sanremo 1977: poche cose di pessimo gusto con una estetica da luna park di provincia

Con la scusa di dover fare dei lavori al Casinò, il Festival trasloca in quella che diverrà la sua sede naturale, il Teatro Ariston. 1977. La prima edizione televisiva a colori. Solo che ora c’è fin troppo spazio, gli scenografi non sanno come gestirlo. L’allestimento è fatto di poche cose di pessimo gusto con una estetica da luna park di provincia. Se ci aggiungiamo la qualità infima dei concorrenti, forse possiamo dire che la rivoluzione sembrava abortita sul nascere (A vincere quell’anno fu un Carneade assoluto, Mino Verniaghi. Con la sua casa discografica che fallì subito dopo). 

Il passaggio nel deserto fu lungo, durò anni. Nessuno ricorda la scenografia del 1980, brutta tanto quanto, ma solo il bacio sulla bocca di oltre mezzo minuto di Benigni alla sua collega/compagna in Eurovisione (che poi voleva dire: Cipro, Malta, Turchia, Paesi oltre la cortina di ferro, Spagna franchista e Portogallo dei militari. Non proprio un campionario modernità).

Sanremo 1983: la scenografia prevedeva una doppia scalinata monumentale – e trash

Gi anni Ottanta volevano, almeno per una settimana all’anno, essere completamente disimpegnati. Il Festival diventa sempre meno uno spettacolo canoro e sempre più una manifestazione televisiva. Niente orchestra, tutti cantavano in playback. Cioè fingevano. Il giovane Vasco Rossi lasciò il palco, polemicamente, mentre la sua voce continuava a cantare di volere una vita spericolata. La scenografia prevedeva una doppia scalinata monumentale, degna del contemporaneo Scarface di Brian De Palma. Una trashata che non vi dico. 

Chi invece comprese tutto fu Patti Pravo, nel 1984. Scese la sinuosa scalinata (una delle scenografie migliori del festival) come una dea iperuranica, palesemente in playback, alla maniera della Wandissima, inguaitana in un abito di Versace, cantando la sua splendida Per una bambola. Un’esibizione televisiva che fece scuola, capace di usare la scenografia senza farsi usare da essa. Ma già l’anno dopo il didascalico tema del computer (nuovo spauracchio della modernità) ammorbava il lavoro degli scenografi: il pavimento era un’enorme tastiere QWERTY, c’erano display ovunque e i cantanti apparivano sulla cima della scala, da un portale di tubi al neon verdi, come un film di fantascienza di quart’ordine.

Nel 1990, l’unico anno al Palafiori, dato che l’Ariston era in ristrutturazione, riappare l’orchestra

Basta fingere di cantare, torniamo alle origini. Con l’orchestra che diventa, da questo momento, protagonista assoluta, assieme alla scalinata, di ogni scenografia a venire. Di anno in anno cambiano gli ornamenti, ma poco gli elementi progettuali caratteristici. La simmetria, innanzitutto: scala in mezzo, due scale ai lati, orchestra compatta al centro, orchestra ai lati, o su più livelli, tutto comunque rigorosamente simmetrico. Poi certo, il dettaglio fa la differenza. Nel 1992 è un profluvio di lampadari e vetrate art decò che rasentano il kitsch, nel 1993 una balconata continua con erme e cariatidi muliebri seminude fanno sanguinare gli occhi, nel 1994 ormai siamo a Fantasilandia, e l’enorme e luccicante vetrata spiegata come la coda di un pavone amplifica a dismisura l’effetto Las Vegas.

Gaetano Castelli, il padre delle scenografie dal 1987 al 2024 quasi ininterrottamente, in risonanza con le pretese estetiche del popolo italico-sanremese

Padre di molte (troppe?) di queste scenografie, dal 1987 a quest’anno in corso, hanno sempre la stessa firma, Gaetano Castelli. Talentuoso scenografo, in perfetta risonanza con le pretese estetiche del popolo italico-sanremese. Quelle volte che non è lui a disegnare il palco non mancano nasi arricciati e polemiche. D’altronde sono le canzoni quelle che ci ricordiamo (non quelle che hanno vinto. Quelle non le ricordiamo mai). L’edizione non pippobaudesca del 1998 – fu Vianello a presentarla – sfoggiava una decorosa scenografia con una scalinatona centrale e dei pannelli geometrici luminosi, disposti a losanga, meno trash del solito. Nessuno se la rammenta. Ci si ricorda solo delle parole infuocate del Financial Times, che stroncò la kermesse definendola: «una sagra del kitsch piena di canzoni terribilmente sentimentalistiche».

Le scenografie di Gaetano Castelli in cui tutto è fluido, luminoso, rotondeggiante, all’apparenza caotico e libero, nella sostanza rigido e simmetrico

Armando Nobili, nel 2000, chiude il millennio con la scalinata di rito, semovibile, che aprendosi faceva entrare i cantanti da sotto, con tanto di tendaggi di velluto rosso, per ricordarci forse, un po’ nostalgicamente, che sempre in un teatro ci troviamo. Il nuovo millennio questa cosa, complice Castelli, un po’ se la dimentica. Nel 2002 concepisce una sorta di enorme uovo intergalattico schiuso, nel 2005 trasloca l’orchestra nel golfo mistico portando sul palco opinionisti (oggi diremmo influencer) e giornalisti per processare in tempo reale i cantanti.

L’intermezzo dei premi Oscar Francesca Lo Schiavo e Dante Ferretti, del 2006, passa sostanzialmente inosservato. Bravi sono bravi, lo sappiamo, ma non avevano capito niente del pubblico sanremese. Panariello, che presentava quell’anno, chiese che la asimmetrica scultorea chiave di Fa che campeggiava sulla sinistra del palco, venisse eliminata per l’ultima serata televisiva.

Castelli rientra e tutto torna ad essere eccessivo, fluido, luminoso, rotondeggiante, all’apparenza caotico e libero, nella sostanza rigido e simmetrico. Come dichiarato, in fondo, nell’allestimento del 2012, che si ispira alla volta celeste, al sistema solare, alle macchine leonardesche. Megalomania estroflessa. Eppure, ci fu pure qualcuno che mugugnò contro Castelli, nemo propheta in patria, per la troppa monotona similitudine alle edizioni precedenti. Ingrati!

Sanremo 2013 e 2014, critiche alle scenografie di Francesca Montinaro ed Emanuela Trixie Zitkowsy

Che poi è bastato affidare nel 2013 l’incarico di progettare la scenografia a Francesca Montinaro che sui nascenti social era tutto un profluvio di esperti inorriditi (l’assenza di fiori, scandalo!, i colori tetri, il senso di fatiscenza, signora mia!). Scenografia troppo colta, che citava Bibbiena, Burri e Fontana. Un bel lavoro, a ben vedere. Peggio andò a Emanuela Trixie Zitkowsy nel 2014, che s’era presa le prime file delle poltrone per allungare il palco e squadernare un tributo al teatro lirico classico, rimodernizzandolo. Maurizio Costanzo in un collegamento a Domenica in la stroncò definitivamente: «Raramente ho visto una scenografia più buia e più brutta».

Meglio tornare ai fiori. Alle campanule multicolori del 2015 o ai fiori sbocciati del 2016 entrambi di Riccardo Bocchini. Anche se a me non dispiaceva la scenografia ‘invisibile’ di Francesca Montinaro, del 2019 (quale canzone vinse? Non ricordate?), fatta di tubi luminosi, proiezioni, luci e ombre e l’orchestra adagiata a semicerchio frontale sul palco. 

Delle linee curve e i giochi di luce dell’immarcescibile Castelli, nel 2020, alla fine neppure ce rammentiamo. Era l’anno del covid, nella nostra testa primeggiano le poltrone vuote, abitate solo da tristi palloncini svolazzanti, e noi a casa davanti alla tv, non per scelta, ma per obbligo. Diodato, quello ce lo ricordiamo, cantava Fai rumore, bella e sfortunata canzone.

La scenografia del 2024: inutile dire che Las Vegas rules. Sanremo ci appassiona, ci diverte, ci indigna, ci fa arrabbiare. Segna l’appartenenza a una comunità

Nel 2021 parla della sua scenografia come di ‘un’astronave e una sorta di stargate, verso un futuro migliore al quale aspirare’. Con Amadeus si trova bene. Nel 2022 resta il golfo mistico dove transumare l’orchestra, lasciando spazio a vorticose ellissi luminose che invadono la scena. Nel 2023 una cupola ellittica di ventun metri domina il fondale e le curve dell’impianto scenico invadono la platea. La scenografia del 2024: inutile dire che Las Vegas rules. In fondo è giusto così. Sanremo ci appassiona, ci diverte, ci indigna, ci fa arrabbiare. Ogni emozione dev’essere eccessiva. Tanto lo sappiamo, dura solo una settimana. E poi ci dimentichiamo di tutto. 

Gianni Biondillo

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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