Cerca
Close this search box.
  • EDITORIAL TEAM
    STOCKLIST
    NEWSLETTER

    FAQ
    Q&A
    LAVORA CON NOI

    CONTATTI
    INFORMAZIONI LEGALI – PRIVACY POLICY 

    lampoon magazine dot com

Theda Bara as Cleopatra, 1917
TESTO
CRONACHE
TAG
SFOGLIA
Facebook
WhatsApp
Pinterest
LinkedIn
Email
twitter X

Polemica su Cleopatra: non c’è evidenza scientifica in merito al colore della sua pelle

Ancora una volta Cleopatra – il dibattito attorno al docu-drama Queen Cleopatra – Netflix, 10 maggio – è l’occasione per riflettere sul valore sociale della storia e sul rischio della consuetudine

La provocazione a partire dal trailer 

«Ricordo quando mia nonna mi disse: non mi interessa quello che ti insegnano a scuola, Cleopatra era nera». In poco meno di due minuti, il trailer del docu-drama Queen Cleopatra riesce nel suo intento: provocare. Niente di nuovo. Netlfix provoca per assicurarsi audience, questa volta creando scompiglio su una presunta verità storica. Almeno a un primo sguardo, il dibattito nato attorno a questa produzione potrebbe essere così sintetizzato e congedato, soprattutto se si trattasse di un mockumentary. Queen Cleopatra si prefigge di ricostruire il vero ed ecco il diniego dell’egittologo Zahi Hawass e del Ministero delle Antichità egizie. Ciò che colpisce i più è che fa leva sul colore della pelle dell’ultima regina d’Egitto, catapultando l’ennesimo tentativo americano di condensare, sotto forma di prodotto cinematografico, eventi storici – drammatizzati – nell’arena del dibattito circa l’identità, l’appartenenza etnica e la discriminazione razziale. 

Queen Cleopatra: Strategia promozionale?

In un mondo affamato di iper-visibilità, in cui sgomitare per uscire dal proprio cono d’ombra è prassi, alcune considerazioni sulla genesi di Queen Cleopatra appaiono necessarie. Potrebbe sembrare quasi che, alla luce di più di quaranta lungometraggi sul medesimo personaggio, chi si sia occupato della realizzazione di questa serie abbia pensato che l’unico stratagemma possibile per assicurare popolarità a quattro episodi da quarantacinque minuti l’uno fosse far interpretare Cleopatra a un’attrice con una carnagione scura – Adele James.

Jada Pinkett Smith e la rivalsa delle «regine nere»

La produttrice esecutiva e voce narrante della serie, Jada Pinkett Smith, anche lei di origine afroamericana, rivendica la necessità di venire a conoscenza di «storie di regine nere», affermando che in pochi conoscono la verità su Cleopatra. È interessante come la Signora Pinkett, presentata il più delle volte come ‘moglie di’ Will Smith dai rotocalchi, dopo una carriera cinematografia in cui ha anche prestato la sua voce all’ippopotamo Gloria nel cartone Madagascar, partecipato al cast di Magic Mike XXL e reso l’alopecia un trend mediatico, voglia adesso contribuire a far luce su una figura storica complessa e iconicizzata nei secoli attraverso le arti. Encomiabile questo slancio verso la storia antica. È credibile? 

Documentare o confondere: le verità storiche e non di Queen Cleopatra

Gli episodi di Queen Cleopatra si avvalgono dell’intervento di esperti, che però, per quanto figurino anche nel trailer – a una di questi spetta la maternità del virgolettato con cui si apre questo articolo – non vedono la loro figura accompagnata, come solitamente accade, da una linea in sovrimpressione che identifichi il ruolo professionale ricoperto. Chi sono questi esperti? Sono attendibili?

Se la serie si prefigge di voler enfatizzare le doti strategico-politiche della sovrana all’interno degli equilibri geopolitici del Mediterraneo antico, offrendone dunque una rilettura storica lontana dalla Cleopatra femme fatale, come nel film perduto con Theda Bara del 1917, allora la strumentalizzazione mediatica di un argomento così delicato, che richiama a sé, tra le varie, le atrocità della segregazione, lo schiavismo nelle piantagioni americane o l’apartheid, finisce per oscurare una narrazione formale. E sposta l’attenzione su temi rilevanti e ingiustizie non ancora sanate. 

Lo scopo di un documentario viene traviato e finisce per inasprire i toni del dibattito, creando ulteriori scissioni. Non che una ricerca audiovisiva non debba sollevare dubbi o avanzare nuove verità, ma creare rumore a colpi di frasine su Twitter e post di Instagram abbassa, di molto, il tono del dibattito. Sarebbe forse più utile la lettura di Colore Vivo. Il significato biologico e sociale del colore della pelle (Bollati Boringhieri, 2020), frutto delle ricerche decennali dell’antropologa Nina Jablonski, docente alla Pennsylvania State University. 

Queen Cleopatra: attacco alla roccaforte della consuetudine 

Dato che non c’è certezza scientifica in merito al colore della carnagione di Cleopatra, la cui madre perlopiù non è nota, possono sussistere alcuni interrogativi di natura etnico-socio-culturale collegati alla figura della sovrana la cui fama trascende i secoli. Indipendentemente dalla dubbia bontà di questa serie, si potrebbe cogliere l’occasione per allenarci a un ipotetico rovesciamento di prospettiva rispetto al concetto di appartenenza etnica.  

Dando per assodato e, riproponendolo in termini pop, che It don’t matter if you’re Black or White, c’è da chiedersi: era davvero necessaria l’ennesima trasposizione filmica su Cleopatra? È davvero rilevante se Cleopatra avesse avuto un’elevata quantità di melatonina nel corpo o meno? Forse sì, ma solo se questo interrogativo ci dà l’opportunità di riflettere sul nostro attaccamento allo sterile valore della consuetudine per cui siamo abituati a vedere la figura della regina d’Egitto con la pelle chiara. Probabilmente perché la sua carnagione era così, se si accoglie l’ipotesi secondo cui fosse di origine macedone. Non vi sarebbero elementi discriminatori fino a questo punto. L’accusa di blackwashing contro Queen Cleopatra, su un piano storico, apparirebbe quindi fondata. 

Punti di vista, possibilità storiche: il valore del contrario 

Se, ad esempio, Tiepolo avesse dipinto di nero il volto della Cleopatra che alberga nella sale di Palazzo Labia in vesti settecentesche? Se Elizabeth Taylor (poi anche Sophia Loren e Monica Bellucci) fosse stata un’attrice nera nel film di Joseph L. Mankiewicz, avrebbe ottenuto lo stesso successo – lei e il film? O meglio, i paradigmi sociali del tempo – negli Stati Uniti – avrebbero permesso di realizzarlo? 

Se Cleopatra fosse stata nera e, in base a folli dogmi razziali, per quanto il concetto di razza sussista solo nella zoologia, il colore della sua pelle fosse stato poi alterato nelle numerose testimonianze che giungono fino a noi, allora potremmo parlare di whitewashing

D’altronde la ricostruzione storica la scrivono gli esseri umani, capaci di falsificazioni, ma anche di assurdità come il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (de Gobineau, 1853-55) o I fondamenti del XIX secolo (Stewart Chamberlain, 1899) che hanno manipolato la mentalità di intere nazioni. Insomma: se Cleopatra fosse stata storicamente di incarnato scuro e un’attrice bianca la interpretasse oggi, questo riadattamento potrebbe apparire più accettabile agli occhi della società o creerebbe comunque scalpore tanto quanto questa serie Netflix?

Oppressione e ‘revanscismo’ sociale della comunità nera

La ricostruzione della storia non è univoca e dice molto di noi, di come percepiamo gli interrogativi che il passato ci pone e in che modalità si tende a rielaborarlo per molteplici scopi. Stratagemma sbagliato ma praticato fin dai tempi della Chiesa medievale sull’eredità culturale della società greco-romana. Per quanto le fonti storiche tendano ad avvalorare una carnagione chiara – la stripe tolemaica era di origine greca e i matrimoni avvenivano tra consanguinei – ciò che Queen Cleopatra, goffamente, evidenzia è la profonda necessità di rivalsa sociale della comunità nera alla luce di innumerevoli vessazioni.

Le metamorfosi di Cleopatra 

Fonte di ispirazione per opere che albergano nell’immaginario collettivo, Cleopatra è eterna. Una donna nata attorno al 70 a.C, regina d’Egitto, stratega, fratricida, amante di due tra gli uomini più potenti del suo tempo, probabilmente morta suicida – anche su questo aspetto, per quanto sia stato un elemento che l’ha resa celebre, vi sono versioni contrastanti. Non esiste una visione univoca riguardo la sovrana. È stata fatta diventare proteiforme. 

Impulso per alte testimonianze della creatività umana, l’ultima regina d’Egitto è stata metamorfizzata nel tempo: criticata da Cicerone, Ovidio ed Orazio, narrata anche da Dante e Boccaccio, drammatizzata nella versione shakespeariana, di cui in italiano conserviamo la traduzione a cura di Salvatore Quasimodo; ritratta da Rosso Fiorentino, Michelangelo, Artemisia Gentileschi, Guido Reni e scolpita anche da Edmonia Lewis, che nel 1876 realizzò The Death of Cleopatra in cui il volto della sovrana presenta tratti decisamente africani – messaggi simbolici simili dunque, ma mezzi espressivi diversi da quelli di oggi.

L’autenticità del dato storico  

Con questa serie targata Netflix – molti premeranno play ma in pochi arriveranno alla conclusione? – la ricerca di autenticità storica attorno a Cleopatra sembra esasperarsi irrimediabilmente; ma è proprio la ricerca di autenticità che nasconde, come nota Andrea Tagliapietra in La virtù crudele (Einaudi, 2003), «un’intima crudeltà, un pugnale che penetra, una lama che sgozza, e insieme, un potere, una padronanza, un controllo della situazione». Un controllo sulla storia in questo caso? E ancora, «l’autenticità costituisce un ulteriore stadio di evoluzione del processo con cui la nozione di verità, intesa nel suo aspetto pratico e pragmatico, entra nei meccanismi di elaborazione antropologica dell’individuo».

A caccia di eroi del passato per legittimare il presente 

Potremmo almeno concordare sull’universalità di Cleopatra: è stata biasimata, lodata, travisata, mitizzata, narrata all’infinito. Che cosa risolve contendersela, farla aderire a un maggiore senso di apparenza etnica piuttosto che a un altro? 

Nella sconquassata condizione contemporanea, presenta dei tratti di quella postmoderna, i messaggi socio-politici vengano ancora veicolati attraverso personaggi del passato. Dolore, idealizzazione, manipolazione e paradosso. Viviamo la crisi dei grandi eroi, riproponendo la visione di Jean-François Lyotard. Nessuna innovazione. Solo prelievi, mise en abyme simbolici, riadattamenti storici e combinazioni pragmatiche per soddisfare e nobilitare un senso di appartenenza. Non resta allora che recuperare ancora una volta un’icona, un’usurata Cleopatra, avvicinarla il più possibile a ciò in cui ognuno di noi può credere e per cui si sente, ragionevolmente, di combattere. 

Federico Jonathan Cusin

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

SFOGLIA
CONDIVIDI
Facebook
LinkedIn
Pinterest
Email
WhatsApp
twitter X