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L’attacco di Gino Paoli a Sanremo: ci sarà sempre qualcuno con la memoria corta 

Che piaccia o meno a Gino Paoli, la musica è un tamburo che fa tum tum tum in quarti di battuta – proprio quel suono ancestrale spiega il successo di generi come la dance o l’hip hop

Forse non siamo più abituati al cringe televisivo

John Travolta non avrebbe firmato la liberatoria per il Ballo del Qua Qua. Il video della gag andata in onda mercoledì sera sarebbe stato rimosso da Raiplay perché l’attore di Hollywood, secondo quanto riportato da Eleonora Daniele su Storie Italiane, non avrebbe acconsentito a quel siparietto. 

Tolto che, per la regola più famosa del web, once it’s on the Internet, it’s there forever, e quindi si può rivedere il video tranquillamente cercandolo su qualsiasi social. Ciò detto, è abbastanza evidente che il livello delle polemiche a Sanremo si sia abbassato drasticamente. Sembrava impossibile che potesse scendere sotto al livello dell’anno scorso, quando ci si è indignati perché Blanco aveva dato dei calci alle rose sul palco. Invece sì, bufera social perché  Travolta si è preso 200mila euro e manco si è voluto mettere il cappello da papero.

È anche vero che forse non siamo più abituati al cringe televisivo. Ormai, l’algoritmo dei contenuti te lo plasmi a tua immagine ed esigenza a forza di reaction su Instagram e TikTok. Tornare, almeno per una settimana all’anno, a guardare un programma in broadcasting sulla Rai ti getta una secchiata gelida di trash italiano, in un continuo alternarsi di momenti imbarazzanti. Che siano essi strappalacrime oppure agghiaccianti come appunto il ballo del qua qua. 

La musica di Sanremo: anche l’indice qualitativo delle canzoni sanremesi non sa più cosa inventarsi come gli autori del programma?

Ha ragione Aldo Grasso quando dice che, all’interno del Festival, «uno dei meriti di Amadeus è stato di riportare la musica al ruolo di protagonista». Il che in realtà potrebbe già costituire una buona notizia. In tutto ciò, la lode che si potrebbe tessere di Ama è quella di aver semplicemente dato ascolto alle classifiche, e di aver anche conferito un peso maggiore al pubblico nel meccanismo di conteggio dei voti. È stato possibile anche grazie all’eliminazione di zone torbide del regolamento, come la giuria demoscopica: un pool di 300 persone scelte “per conto della Rai” i cui requisiti erano quelli di “avere più di 16 anni e manifestare un certo interesse per la musica”.

Innegabile che la politica musicale di Amadeus abbia pagato, anche banalmente in termini di ascolti. Per confronto, l’ultima edizione del governo Baglioni si aggirava sul 49,38% medio di share, mentre quella amadeusiana del 2023 ha registrato un 63,38% di tutto rispetto. Senza nulla togliere a Baglioni, che se vogliamo ha inaugurato la nuova epoca sanremese in cui il vincitore (Mahmood con Soldi) e gli ascolti quotidiani degli italiani sono tornati per davvero sullo stesso binario contemporaneo. 

La forma di canzone in gara all’Ariston coincide con quella che ascolterebbe un ragazzino di 13 anni dagli speaker del suo telefonino in piazzetta: è fatta di un beat, cassa, voce, tastiere e, forse, avendo a disposizione un’orchestra, sfoggia più archi di quelli che avrebbe di solito.  

Sanremo è tornato a parlare del presente, più che continuare a proporre anacronisticamente dei fantasmi come gli Stadio

È ormai un Sanremo che la stampa definirebbe “urban”, una kermesse che ha ormai perfettamente sdoganato rap, dance, forse addirittura la techno. Geolier, che tra l’altro è in vantaggio sulle preferenze del pubblico, nella sua I P’ Me, tu p’ te in gara rima in napoletano, Dargen ormai ha ritrovato se stesso nella dance da spiaggia, Mahmood prende una piega ghetto ballando sui tetti delle popolari nel video di Tuta Gold. Sanremo è tornato a parlare del presente, più che continuare a riproporci anacronisticamente dei fantasmi come gli Stadio, che hanno vinto nel 2016 (manco 10 anni fa). 

Gino Paoli ospite del podcast Tintoriaha commentato così la situazione musicale del Festival

Non tutti però la pensano così. Qualcuno l’ha sparata grossa. Prendi Gino Paoli che, ospite del podcast Tintoria, proprio nel giorno di apertura ha commentato così la situazione musicale del Festival: «Sanremo era la chance della vita. C’era gente che diceva: “Se non vinco mi ammazzo”. All’inizio non era così [come oggi]: la canzone usciva, Vola, Colomba bianca, vola e la cantavano anche in Giappone. Era tutta un’altra cosa, era un fatto anche economico, globale quello delle canzoni che andavano a Sanremo perché erano state scelte da un editore. Non uno che fa il tabacchino. Quindi avevano dei filtri già talmente importanti che la canzone di merda non arrivava a Sanremo. Invece adesso ci arrivano soprattutto quelle di merda».

Andiamo per ordine. Tanto per cominciare, se un tempo era la chance della vita e se non vincevi ti ammazzavi, ma meno male che non è più così. C’è solo da ringraziare che siano finiti i tempi in cui, vedi Tenco, gli artisti arrivavano a compiere gesti estremi in seguito alle delusioni in gara. Detto poi da una persona come Paoli, che nel cuore ha ancora il proiettile della pistola che lui stesso si puntò al petto l’11 luglio del ‘63, certe parole risuonano ancora più fuori luogo. Non serve più arrivare primi: il festival ti dà un boost di visibilità importante. Poco importa quale sia il tuo posto in classifica finale.

Dopodiché, mai come oggi la canzone italiana viene ascoltata all’estero. All’epoca dell’uscita, Soldi di Mahmood è diventata di colpo il brano italiano più ascoltato nell’era dello streaming. Proprio in questi giorni, I P’ Me, tu p’ te di Geolier ha debuttato anche nella Top 50 mondiale di Spotify. Certo, non ci sono più i margini di guadagno di quando si stampavano vinili. Ma oggi, tra merchandise e tour, gli artisti e le discografiche hanno ovviato molto bene al problema “economico” e “globale”. In più, anche oggi, la distinzione tra chi fa l’editore e chi invece il tabacchino è ben evidente. 

La memoria corta di Gino Paoli

Queste ovviamente sono tutte cose che il Signor Paoli sa benissimo. Almeno fino al 2015, quando si è dimesso per le accuse di evasione fiscale (poi ricadute, perché il reato è andato in prescrizione), l’ultimo rimasto della scuola genovese ricopriva la carica di Presidente della Siae. Perciò, non è sbagliato dire che le cosiddette  “canzoni di merda”, tra il 2013 quando è iniziato il mandato e il 2015 quando è finito, hanno giovato parecchio alle casse della Società Italiana degli Autori ed Editori. 

La posizione di Paoli che più fa riflettere viene più in là nel podcast. «Siamo tornati indietro. La musica di cosa era fatta una volta? Di un tamburo, qualcosa da picchiare, tum tum tum. Tu riesci a capire i testi di quelli che fanno tum tum tum?» e poi ancora: «La musica è Mozart. La musica è la musica, porca puttana, non è un tamburo e basta».

Anche le composizioni di Mozart all’epoca erano criticate dallo stesso Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena

Poi magari voleva dire altro. Ma c’è qualcosa nelle parole di Paoli che trasuda di pensiero post-colonialista da uomo bianco occidentale per cui, tra quella di Mozart e quella tribale, ci sarebbe uno scarto evolutivo, una netta superiorità artistica della prima sulla seconda. È come quando Stockhausen, pioniere del serialismo tedesco, scrisse nel ‘95 ad Aphex Twin, allora giovane promessa dell’elettronica, di piantarla “con tutte queste ripetizioni post-africane” e di “cambiare più spesso tempi e ritmi.” Aphex Twin ovviamente non la prese bene e rispose a Stockhausen di “smettere di fare pattern astratti e casuali su cui è impossibile ballare”. 

Tutto questo per ricordare all’autore del giro di Do più famoso di sempre in Italia (La Gatta) che ci sono sempre state persone, guarda caso sempre anziane, che si sono lamentate della musica contemporanea. Non importa quale sia l’epoca. Anche le composizioni di Mozart, visto che qui viene preso come esempio massimo, all’epoca vennero criticate dallo stesso Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena perché con “troppe note”.

La musica esiste da quando esiste l’uomo e la sua definizione non è mai cambiata: è l’organizzazione dei suoni nel tempo, che siano essi generati da uno strumento o da un semplice battito delle mani, da una voce o un sasso battuto su un tronco. Che piaccia o meno al Signor Paoli, la musica è soprattutto un tamburo che fa tum tum tum in quarti di battuta. E proprio quel suono ancestrale spiega il successo di generi come la dance o l’hip hop. “Nei ritmi ossessivi, la chiave dei ritmi tribali” cantava un grande autore che la musica la conosceva profondamente e nel suo insieme, e non rimpiangeva di certo i tempi in cui «Sanremo era la chance della vita».

Claudio Biazzetti

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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