In media ciascuno butta 11 kg di vestiti, scarpe e prodotti in tessuto ogni anno. Produrre meno, comprare meglio e riutilizzare – dalla filosofia giapponese Kintsukuroi all’Upcycling: Appcycled di Diletta Pollice
«Noi definiamo upcycling come il processo di prendere un materiale che è considerato scarto e trasformarlo in qualcos’altro attraverso un processo creativo – spiega Diletta Pollice founder di Appcycled – mentre il riciclo è trasformare quello scarto in nuova materia prima e poi dalla materia prima-seconda ritrasformarlo in qualcos’altro. Qualsiasi scarto, se non nocivo per la pelle o nocivo per l’ambiente, che non rilascia sostanze, può essere utilizzato per creare qualcos’altro che può reinventare sia nella moda che nel design e quindi risparmiare le materie prime che vanno utilizzate».
Evitare gli sprechi con l’upcycling: il concetto di mottainai giapponese
L’upcycling consente di ‘salvare’ oggetti o vestiti che altrimenti verrebbero buttati o dati al macero, dando loro una seconda vita. Esiste un termine giapponese, mottainai “rammarico per uno spreco”. L’aggettivo mottainai include il sentimento di colpa e rammarico per aver sprecato qualcosa, ma anche per non aver permesso a qualcosa (o qualcuno) di raggiungere il suo massimo potenziale. Questo concetto si applica in diversi aspetti della vita, dal modo di mangiare senza avanzare nulla nel piatto, all’impacchettare i regali con tessuti per evitare lo spreco di carta.
L’upcycling e la filosofia Kintsukuroi – l’arte giapponese di aggiustare ciò che si è rotto
Legato al concetto di mottainai c’è la filosofia Kintsugi. In giapponese kin significa oro e la radice tsugi vuol dire riunire, riparare, ricongiunzione. Il Kintsukuroi è l’arte giapponese di aggiustare ciò che si è rotto. Quando un oggetto di ceramica si rompe, i maestri artigiani del kintsukuroi raccolgono i frammenti e li saldano, riempiendo e mettendo in risalto le crepe con polvere d’oro. Questa pratica si incontra con la filosofia zen e la concezione che mostrare le proprie ferite (anche emotive) renda più forti. Nella pratica il Kintsukuroi è riparare un oggetto rotto aumentandone il valore estetico e materiale. Lo stesso fa l’ucycling riutilizzando un oggetto e tessuto di scarto modificandone il nostro valore percepito.
L’upcycling è diverso dal recycling, il riciclo, il cui obiettivo è quello di far tornare un oggetto alla stessa funzione
L’upcycling è diverso dal recycling, il riciclo, il cui obiettivo è quello di far tornare un oggetto alla stessa funzione, a volte quello di trasformarsi perdendo valore. Upcycling significa riutilizzare gli oggetti per creare un prodotto di maggiore qualità, reale o percepita. Possiamo parlare di upcycling non solo per l’arredamento e i vecchi mobili, ma anche sicuramente per i vestiti.
Nascita del termine Upcycling: l’ingegnere tedesco Reiner Pilz
Il termine upcycling viene coniato per la prima volta da Reiner Pilz, ingegnere meccanico della Pilz GmbH & Co. KG, durante un’intervista nell’ottobre 1994 in merito alla decisione dell’Unione Europea di implementare il sistema di smaltimento dei rifiuti. «Il Riciclo – disse Pilz – lo chiamo down-cycling. Distruggono i mattoni, distruggono tutto. Ciò di cui abbiamo bisogno è l’up-cycling, grazie al quale a vecchi prodotti viene dato un valore maggiore e non minore». L’upcycling è diverso dal recycling, il riciclo, il cui obiettivo è quello di far tornare un oggetto alla stessa funzione, a volte quello di trasformarsi perdendo valore. L’upcycling, è la pratica di riutilizzare gli oggetti per creare nuovi prodotti di maggiore qualità, reale o percepita.
L’arte di riconversione dei materiali, con l’obiettivo di prolungare il ciclo di vita con benefici per noi e per l’ambiente. Oggi si sente parlare di upcycling prevalentemente in ambito moda, ma può essere applicato anche all’arredamento o al design. Il riciclo include la produzione industriale, mentre un capo rielaborato grazie all’upcycling richiede meno acqua, meno energia e materie prime per la produzione. Un’altra differenza tra riciclo e upcycling prevede che gli articoli upcycled non possono essere realizzati in serie, i materiali di scarto a disposizione sono spesso limitati o diversi tra loro e consentono di creare pochi prodotti, se non prodotti unici.
Upcycling pre-consumer o post-consumer
Esisto due tipi di upcycling: prima o dopo del consumatore. L’upcycling pre-consumer utilizza scarti di tessuto usato che sarebbero dovuti servire per la fabbricazione di capi ma non sono stati utilizzati, come scarti di magazzino, eccedenze o tessuti fallati che non sono ancora passati nelle mani del consumatore. L’upcycling post-consumer si serve di vestiti già usati, in condizioni più o meno buone che sono modificati, riadattati o rattoppati. Diverso è il caso in cui i tessuti o i capi sono rifilati come nel caso della lana o de cachemire; quello non può essere considerato upcycling perché implica un altro processo produttivo che è la rigenerazione dei filati. Entrambi i tipi di upcycling possono essere messi in atto sia da designers e brand che da persone che vogliono dare nuova vita a un capo che non indossano più.
Upcycling e deadstock con Diletta Pollice
Il processo di upcycling funziona perché abbiamo grandi quantitativi di deadstock. Ci si chiede se può essere considerato sostenibile un processo che si alimenta grazie ad un’industria basata sul consumismo e gli sprechi. «In un concetto di sostenibilità il deadstock non dovrebbe esserci, se presumiamo che le aziende producano quanto hanno bisogno, anche se spesso quello che usiamo sono prove di stampa. Ai produttori tessili a volte conviene produrre centro metri anche se il brand ne ha chiesti novanta. O se in una produzione un pezzo di tessuto è rovinato il brand non può usarlo perché abbasserebbe i suoi standard qualitativi. Idealmente lo scarto non ci dovrebbe essere, ma visto che c’è cerchiamo di riutilizzarlo meglio».
Non siamo più abituati a intendere i vestiti come un bene duraturo. I vestiti fast fashion che costano ‘così poco’ hanno fatto diventare consumatori usa e getta. La vita media di un capo è inferiore ai 160 utilizzi. Si è passati dal prêt-à-porter al prêt-à-jeter: pronto da gettare.
Diletta Pollice e Appcycled: il marketplace per l’upcycling
«Durante il Covid mi sono avvicinata all’upcycling, facendolo sui miei vestiti, scovando i diversi designer che esistevano online e da lì nasce l’idea di aiutarli a emergere, a collaborare con le aziende e cercare di semplificare e accelerare questo processo che a oggi è ancora in divenire. Lavoravo per Napapijri e avevano appena lanciato la prima giacca riciclabile, da lì poi si sono formate le domande. Dove vanno a finire i vestiti se non possono essere riciclati? Ho studiato tutti i processi e deciso che volavo fare qualcosa di positivo partendo dal materiale già esistente, quindi l’upcycling».
APPCYCLED: La Start Up dell’upcycling con Diletta Pollice
«In Italia è complesso lanciare una start-up perché a confronto con altri paesi europei che potevamo scegliere è più costoso e ci sono anche molti meno investimenti. Ci sono bandi, specialmente per l’artigianato, per il made in Italy, però sono difficili, con tempistiche lunghe che una start-up non riesce ad aspettare. Tra i paesi europei, l’Italia non è il più facile in cui lanciare un’azienda. Abbiamo visto che i nostri compagni che hanno lanciato in altri paesi hanno avuto risultati migliori. La moda in Italia è un settore rilevante, è un paese dove c’è lavoro da fare, ci sono aziende con cui collaborare, anche se non sempre hanno voglia di collaborare».
Chi compra l’upcycling con Diletta Pollice
«In Italia non penso ci sia un’altra città dove avremmo potuto lanciare la start up diversa da Milano. Il nord Italia è il posto migliore, si vede anche dai dati. L’upcycling ha prezzi di fascia medio alta e quindi il nostro target di cliente ha bisogno di avere uno stipendio o medio alto. La nostra clientela con cui parliamo durante i temporary stores è principalmente a Milano».
Upcycling e industria tessile con Diletta Pollice di Appcycled
«Come donna è più difficile quando parli con gli investitori, che sono principalmente uomini anche nella moda. Quando ti interfacci con i produttori tessili o i brand, non solo ti vedono come ragazza, ma anche giovane, non ti considerano, non hai credibilità ai loro occhi. Anche la ricerca dei materiali per l’upcycling è più complessa. Facendo crescere l’azienda e partecipando a più incubatori o creando più contatti si riesce ad instaurare rapporti con diverse persone e trovarne altre che credono nel progetto di upcycling».
Come Funziona Appcycled con Diletta Pollice
«Ricerchiamo i designer o loro contattano noi, li selezioniamo base a dei criteri di stile e facciamo l’on-boarding sul marketplace. Li presentiamo sui social, cerchiamo di aiutarli nel comunicare il loro brand, organizziamo temporary stores per dare la possibilità al consumatore di parlare con i designers. Cerchiamo di far partecipare i designer ai brand per far capire a questi ultimi che gli scarti possono essere riutilizzati e che ci sono tante possibilità».
Upcycling, Moda, tecnologia e intelligenza artificiale con Diletta Pollice
«L’online sta facendo in modo che si abbiamo più informazioni e più trasparenza del brand verso il consumatore. L’ecodesign sta sviluppando tecnologia per riciclare sempre di più e in modo efficiente i vestiti. L’intelligenza artificiale può aiutare nella creazione dei cartamodelli, in modo da avere meno tessuti di scarti. La moda 3D aiuterà a produrre meno e fare più pre-ordini o realizzare capi su misura. Uno dei nostri designer, Michael Ruggero, ha trasportato in 3D i suoi cartamodelli perché realizza pezzi unici con tessuti upcycled e così può personalizzare l’ordine in base alla richiesta del cliente».
Unione europea e fine vita dei capi con Diletta Pollice: il futuro dell’Upcycling
«L’Unione Europea ha promosso una legislazione in cui entro il 2025 i produttori saranno responsabili del fine vita dei capi e dei prodotti tessili che producono. Questo giocherà a nostro favore. Bisognerà capire come si evolverà la parte di recupero dei capi perché ad oggi non possono essere riciclati cosi come sono. Molti capi non possono essere riciclati perché sono composti da materiali misti o ai brand costa troppo. Con una parentesi per i materiali vergini come cotone, lana e cachemire, tutto il resto è molto complesso da riciclare bisogna scucire tutte le cuciture, scucire le zip e dividere i materiali. Ancora troppo è quello che oggi finisce in discarica».