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Oppenheimer secondo Benjamín Labutut: il giorno più luminoso sfuma nel tramonto della storia dell’uomo

Oppenheimer di Christopher Nolan: tredici nomination e sette Oscar – come Labatut fa dire al fisico Richard Feynman: «È spaventoso il modo in cui funziona la scienza: la più creativa e la più distruttiva delle invenzioni umane comparvero esattamente nello stesso momento»

Oppenheimer di Christopher Nolan: tredici nomination e sette Oscar

Oppenheimer di Christopher Nolan trionfa alla 96ª edizione degli Academy Award. Il film dedicato al padre della bomba atomica si aggiudica sette Oscar su tredici nomination, inclusi miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista e miglior attore non protagonista. Nolan ha espresso gratitudine per la squadra che ha contribuito al film, sottolineando il fatto che viviamo in un mondo influenzato da Oppenheimer e dalla bomba atomica, nel bene e nel male. Cillian Murphy ha dedicato il premio agli operatori di pace di tutto il mondo, riflettendo sul tema centrale del film.

Storie di scienza e di scienziati: da Oppenheimer a Ven Neumann

C’è stato un momento, nella storia di questo mondo, in cui un gruppo di uomini, folli e geniali, ha visto il futuro. È successo negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale, tempo prima dello scoppio di The Gadget a Los Alamos, nel luglio del 1945, prima del 6 agosto dello stesso anno, quando Little Boy, la prima bomba al plutonio, fu sganciata su Hiroshima, prima ancora che la seconda bomba, Fat Man, tre giorni più tardi fu sganciata su Nagasaki. Nei primi anni del Novecento, è capitato ai matematici, ai fisici, agli scienziati coinvolti direttamente e indirettamente al Progetto Manhattan, e a tutti gli uomini di scienza che guardavano il cielo virare su colori mai visti prima, di percepire, per un attimo soltanto, ciò che sarebbe successo nei secoli a venire. La nascita di un mondo nuovo, nato sulle ceneri di uno sterminio. O l’esplosione ultima, la fine del pianeta Terra per come lo conoscevano, causata dalla mano dell’uomo che aspirava all’incendio. 

Nel film Oppenheimer di Cristopher Nolan, campione d’incassi della passata stagione estiva, e dedicato alla figura del fisico, direttore del Progetto Manhattan, si vede Oppenheimer, interpretato da Cillian Murphy, trovare segni del mondo che sarà dopo la bomba nelle gocce di pioggia che cadono sul cemento o si rincorrono lungo una finestra, riconosce lo stesso fuoco capace di ardere il mondo nella fiamma di una candela, sente il rumore della guerra che verrà nel frastuono del vento. 

In mente gli passano migliaia di missili, rompono le nuvole, trasportano bombe pronte a scoppiare. In un dialogo con Einstein, la bomba atomica ormai sganciata, Oppenheimer dirà: «Abbiamo pensato che avremmo potuto avviare una reazione a catena che avrebbe distrutto il mondo», Einstein gli chiede: «E allora?», «Penso che l’abbiamo fatto». Ecco l’abisso che coglie gli uomini davanti a una nuova scoperta. Uomini di scienza che cercano di sfuggire al paradosso, di imbrigliare un mondo che andava facendosi sempre più turbolento. Animati dal puro e semplice entusiasmo per l’aspetto scientifico, dalla gioia di pensare l’impensabile e fare l’impossibile, di spingersi oltre ogni limite umano per far ardere il dono di Prometeo. Tra loro, pochissimi capaci di vedere la follia che stava arrivando. In mezzo a loro: il fisico Paul Ehrenfest, il matematico Alexander Grothendieck, e ancora l’informatico John von Neumann ed Erwin Schrödinger, il chimico Fritz Haber. 

Benjamín Labatut racconta la follia cieca e irrefrenabile degli uomini di scienza del Novecento 

Benjamín Labatut – autore di Quando abbiamo smesso di capire il mondo, La pietra della follia, e il recente MANIAC, in Italia pubblicati da Adelphi – è capace di catturare quei frangenti cruciali della storia della scienza moderna restando nel territorio libero della letteratura. I suoi racconti di scienziati sono tutti collegati tra di loro, in modo sotterranea, mistico. Perché è quello il territorio in cui Labatut sta più comodo: nei percorsi laterali, irrazionali, dove il genio incontra la follia. 

Dove il giorno più luminoso sfuma nel tramonto della storia dell’uomo. In quel punto della storia, che Labatut è capace di illuminare, dietro la scienza si nasconde la guerra, il cianuro viene estratto dal punto di blu di Prussia più vivo, e il primo computer si rivela fratello della bomba atomica. Perché capita così, come Labatut fa dire al fisico Richard Feynman: «È spaventoso il modo in cui funziona la scienza: la più creativa e la più distruttiva delle invenzioni umane comparvero esattamente nello stesso momento».  

Maniac, Benjamín Labatut fa della matematica letteratura

La nascita dell’informatica per come la conosciamo oggi, e soprattutto il seme da cui è germogliata l’intelligenza artificiale che tanto ci affascina e spaventa, sono al centro dell’ultimo libro di Benjamín Labatut, MANIAC (Adelphi, 2023). Un libro, come i suoi altri, di racconti tra loro collegati da un filo sottilissimo e perturbante: la breve e tragica vita di Paul Ehrenfest, la folle ascesa di John von Neumann, e l’agghiacciante sconfitta del campione mondiale di go, Lee Sedol.

Labatut corteggia figure che nascono da un eccesso di sete di conoscenza, indaga il folle genio, colui che sente in maniera acuta di sapere e questo suo sentire diventa una maledizione. Prima di ogni altro, Ehrenfest, che era una specie di editor di altri fisici e ha smesso di capire la matematica in cui la fisica era scritta. Questo perché stava cambiando la matematica: stava diventando probabilistica: immetteva l’incertezza, cercava di misurarla. Mentre là fuori tirava aria di guerra, la più esatta delle scienze sembrava vacillare davanti all’assoluto, aprendosi al difetto, portandolo con sé. Georg Cantor, matematico tedesco, padre della teoria degli insiemi, si mise a dispiegare l’infinito, aprendo le porte a un multiverso in continua via d’espansione, indefinibile, incomprimibile. 

MANIAC è un libro sulle cose che cadono fuori dalla scena dell’umano. È un libro sull’incertezza, sulla fallibilità. È un libro che racconta come la matematica, dopo duemila anni, sia tornata a essere pura immaginazione e un metodo per indagare l’animo umano. È un libro sul perché, il come e il quando i computer hanno imparato a giocare a go e hanno sconfitto gli esseri umani. 

Benjamín Labatut, matematico e poeta, vincitore del Premio Malaparte 2023

Labatut dice di non avere mai imparato a giocare a go. Dice di essere stupido con i numeri e che ogni volta che si mette a leggere di matematica gli prende un blocco mentale. Dice che sua figlia lo rimprovera perché incapace a risolvere la più semplice tra le equazioni. Conserva però nei confronti dei matematici sana invidia. Li trova capaci di parlare di Dio e con Dio, e lui vuole vederlo questo Dio, e allora studia le vite folli degli scienziati, e quando riconosce Dio, soltanto allora, si mette a scrivere. 

Scrive per cercare di capire il mondo, rivelandosi matematico nel metodo, anche se non di merito. Racconta di essere stato malissimo, a un certo punto della sua vita, di aver visto e di essere sprofondato nel suo buco nero. E da quel momento, che ha attraversato e dal quale è uscito, si sente permeabile alla scrittura, ai punti di vista più diversi. Si è messo a raccontare di scienza e di scienziati, è stato tradotto in decine di lingue, ha vinto numerosi premi internazionali, tra cui l’ultimo, a Capri, dove gli è stato assegnato il Premio Malaparte 2023. 

Veste di nero, spesso jeans stretti, una t-shirt, un kimono. Fuma sigarette rollate a mano. Ha quarantatré anni, vive in Cile, ed è bello e selvaggio come un surfista hawaiano. È figlio di un anarchico capitalista che ha seguito in giro per il mondo durante la sua infanzia. È nato a Rotterdam. Scorre nelle sue vene sangue francese. Il suo bisnonno, Alfredo Pesce Gennaro, era italiano, nato in un paese vicino Genova e trasferitosi in Cile per combattere la Prima Guerra Mondiale. È poi morto in trincea, soffocato dai gas. Gli stessi gas che aprono il libro che ha distinto Labatut nella scena editoriale contemporanea, Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021). 

Quando abbiamo smesso di capire il mondo, il successo di Benjamín  Labatut 

Interrogato su quale fosse l’argomento che sorregge ogni suo libro, Labatut ha risposto: «Scrivo di ciò che va al di là della comprensione. Scrivo su ciò che l’umano ha toccato e non ha compreso»

Quando abbiamo smesso di capire il mondo è un libro sulla chimica e sull’alchimia. Un libro impregnato di vita e di morte, e capace, come pochi altri, di rivelare con grazia e spietatezza, lo stretto legame che intercorre tra le due. Si pensi al racconto che apre la raccolta, una breve cronistoria della nascita del cianuro, ricavato nel 1782 dal primo pigmento sintetico moderno, il blu di Prussia, lo stesso blu della Notte stellata di Van Gogh, il blu della Grande onde di Kanagawa di Hokusai. Un blu nato da un distillato di resti di animali torturati vivi e fatti a pezzi, poi riassemblati e rianimati con scariche elettriche. Un blu nato dai mostri e da cui nascerà un veleno mostruoso, utilizzato nei campi di sterminio. Lo stesso veleno che parrebbe ricordare la struttura degli amminoacidi che creano il DNA. Morte e vita, poi morte, ancora vita. 

Quando abbiamo smesso di capire il mondo è un libro sul vuoto che assume le sembianze di Dio, e sull’uomo sconvolto davanti a tale vuoto. È un libro sul vuoto che si fa mistero, anima il mondo, e sfugge ad ogni logica. Racconta la storia di Alexander Grothendieck che voleva catturare il Sole con una mano. Un uomo la cui mente non trovava spazio in questo universo ed è finito a condurre una vita monastica, povero tra i monti. Racconta la storia di Karl Schwarzschild, matematico, astronomo e astrofisico, che in trincea riesce a risolvere le equazioni di Einstein, e a cui Labatut fa dire: «Solo una visione di insieme, come quella di un santo, di un pazzo o di un mistico, ci permetterà di decifrare la forma in cui è organizzato l’universo». 

La letteratura per Labatut come arte oscura, un regno di stupore e stranezza, racconto della fragilità umana

In un mondo fatto di bipolarismo e opposizioni, l’essere umano tende all’assoluto. Un sentimento di angeli e di demoni. Eppure, l’unica resistenza possibile alla visione sempre più frammentata d’oggi. 

È capitato al matematico David Hilbert che propose un programma straordinariamente ambizioso per determinare se l’intero universo matematico potesse essere fondato su un unico insieme di assiomi. È capitato a Bertrand Russel, uno dei più importanti logici europei, che, affiancato dal collega Alfred North Whitehead, scrisse un gigantesco trattato che si proponeva di ridurre tutta la matematica alla logica. Per settecento e sessantadue pagine si limitarono a dimostrare che 1 più 1 fa 2. Ma la matematica non era più logica. Il sole della scienza, della ragione, aveva brillato troppo forte, accecando gli aspetti umani più vicini al cuore. Serviva il buio, affinché le cose si potessero vedere meglio. 

Questo fa la letteratura di Benjamín Labatut: oscura per mettere a fuoco. Per riunire un mondo frazionato. Non separa la scienza dalla storia, perché nulla si può separare. Ibrida i generi, perché i generi non esistono, esistono le storie, i miti, le leggende. Bejamín Labatut riporta tutto al centro. Ha uno sguardo onnivoro che si posa su ogni cosa. Segue i teoremi della geometria non euclidea, dove due rette parallele finiscono per incontrarsi. Crede nel rovescio della ragione che è la follia. Crede in Nestor Sanches, poeta cileno, schizofrenico, che diceva che la ragione e la follia sono sintomi della stessa malattia. la fragilità umana, la malattia che scava, sviscera e studia Labatut nei suoi libri. La stessa malattia profetizzata da Plinio il Vecchio prima che tutto scoppiasse. Scriveva: «Tutto questo è follia». 

Benjamín Labatut

Scrittore cileno, ha esplorato i confini che separano le conoscenze scientifiche dai saperi empirici ibridando generi e stili letterari quali fiction, saggistica e biografia storica, e indagando la labile soglia tra il vero scientifico e l’indicibilità del reale. Tra le sue opere, portate in Italia da Adelphi: Quando abbiamo smesso di capire il mondo (2021), La pietra della follia (2021), MANIAC (2023). 

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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