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Fondation Cartier poer Triennale di Milano, Ron Mueck
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Nudità e peli, adipe e carne umana: non c’è ritegno in Ron Mueck

La nudità non è vergogna, ma umanità: Ron Mueck in mostra alla Triennale di Milano nel programma della Fondation Cartier – corpi, carne, peli, alla ricerca della solitudine che ci rende vivi

La regina seduta sul vaso, a Londra, prima della parata per il Giubileo

La regina Elisabetta è seduta sul vaso, in bagno, da sola, una posa di attesa. Un attimo di solitudine. La porta del bagno è aperta, la videocamera inquadra ma non si sofferma. La regina sospira, alza il mento – ancora in attesa: che lo stimolo porti al moto, oppure che la scossa dell’espulsione si plachi in una rinnovata calma nel basso intestino. L’immagine è sfuocata, i frammenti veloci – come a mantenere il rispetto per il momento intimo. Si tratta di qualche cosa che succede a tutti – o meglio, ai più fortunati – ogni mattina. La regina si laverà, si vestirà in rosa con il cappello in tonalità, per poi salire sulla carrozza dorata e attraversare Londra in parata da Giubileo.

Ron Mueck: l’iperrealismo nell’arte, dall’Australia a Londra

Ron Mueck è nato in Australia, oggi lavora in Inghilterra. È stato residente alla National Gallery di Trafalgar Square – e non gradisce il termine iperrealismo associato alla sua espressione artistica. I suoi lavori possono essere definiti sculture – ma si può comprendere come il vocabolo, scultura, inteso comunemente, non sia quello corretto. Si tratta di fotografie tridimensionali di esseri umani, spesso nudi, che riescono a divorare la buona creanza di ogni ritratto. 

Il buon senso borghese di ogni quadro astratto è deriso e liquidato: ci troviamo davanti a una tale intimità umana che la nudità diventa uno schermo. La pornografia ricorda una barzelletta per gente distratta. In poca concessa solitudine, nell’ultimo episodio della terza stagione di The Crown la regina Elisabetta è seduta sul cesso, la mattina prima del Giubileo, forse in preda alla stitichezza o forse soddisfatta da una sua regolarità invidiabile – Ron Mueck saprebbe cogliere una flessione della pelle sotto la palpebra della regina, un indurimento di ciglia, una ruga passeggera sulla fronte. Un momento espressivo che la regina avrebbe condiviso forse – ripeto forse – solo con i suoi cani.

I social media di Meta pongono censura su un capezzolo nudo, lasciando in mostra chiappe strette dentro ai tanga e reggiseni microbici in pizzo di poliestere. Quanta scabrosità umana, licenziosità, durezza e violenza, baratro e vergogna, orgoglio e sesso, ci può essere nella bellezza dei difetti della nostra pelle? Di un corpo appena nato, così come di un cadavere. Un brivido può scorrere lungo la schiena – ritrovando le nostre variabili di bellezza. 

Big Man è Saturno – le variabili del pene 

La poetica della dimensione del pene di un maschio. Quando ristretto dal freddo, disperso, introvabile, tra peli pubici troppo lunghi; rilassato, cadente, come a promettere ogni forza idraulica. In competizione con quello di altri uomini, maschi tra maschi, indifferenti mai, che sia uno scherzo goliardico tra amici di doccia, o un invito celato a piacere reciproci. Big Man (2000) è la resa in oggetto di Saturno: lo sguardo storto, il naso romano e pingue, la testa pelata, il labbro superiore inesistente. Lo abbiamo incontrato tutti, un uomo così: a scuola, il preside, il professore di latino o di religione, il bidello; un imprenditore disonesto a cui abbiamo vinto una causa; un uomo seduto sotto l’ombrellone pochi metri oltre al nostro. Ci ha fatto paura, ci ha costretto a guardarlo. Le ruvidità del ginocchio e del gomito, il secondo si posa sul primo. Lo scroto è un pallone da baseball – mentre il pene, un fagiolo. Si tratta del vescovo da cui prendi la comunione. 

Ron Mueck: la mostra di Fondation Cartier alla Triennale di Milano

L’aggressività con cui Ron Mueck scava oltre la solitudine, oltre la nudità del corpo umano, è mossa da un impegno monastico, come scriveva Justin Paton. Non c’è ritegno, non c’è ribrezzo, non c’è ritardo, non c’è ritrosia: la dedizione allo scavo, alla profondità, alla divaricazione di ogni intimità. La mostra alla Triennale di Milano su Ron Mueck è l’occasione per studiare il libro che Fondation Cartier ha pubblicato sia come catalogo dell’esposizione, sia come resoconto dell’attività di Mueck in oltre vent’anni di lavoro. Mi domando se dovrei trattenermi in una dimensione più giornalistica, smussando alcune parole e immagini – ma neanche ho messo il punto a questa frase, che un ghigno mi ricorda di non essere stupido. Non il solito piccolo borghese lombardo e buona educazione. Sto uscendo da un’ora di lettura sull’opera di un artista che ha fatto della defecazione pubblica una sdolcinatezza puerile.

La solitudine e le coppie – tre opere di Ron Mueck

I peli escono delle orecchie, dalle narici e tra i calli – quando li vedi da vicino, incutono timore – un po’ di schifo – non importa che si tratti del tuo stesso corpo. C’è la carne umana, flaccida, pastosa, dappertutto con il suo odore di casa, di camera da letto la mattina, prima di aver riaperto la finestra, la porta ancora chiusa. Tuo figlio era un bambino fino a un momento fa, quando la stanza dove dormiva era profumata, che fosse tardi per un bacio della buonanotte, o la mattina per farlo alzare e andare a scuola. Adesso, tuo figlio è un adolescente, gli odori non sono più bianchi.

La solitudine del corpo umano è più evidente quando si diventa vecchi. Quando l’alito si guasta, sempre di più ogni mattina: se vogliamo fare sesso al risveglio, è meglio evitare di baciarsi in bocca. Le opere di Mueck rubano la vita a bambole che sono mummie senza bende: sublimazioni di essere umani soli, autonomi. La solitudine c’è quasi sempre, anche nelle tre opere dove a essere ritratte, sono le coppie. 

I due ragazzi di Spooning Couple (2005), tra le lenzuola del loro letto. Forse hanno appena concluso una sessione, nella quiete postcoitale: l’uomo indossa una maglietta, ed è senza mutande, il suo pene posato, a dimora tra le natiche di lei che invece indossa biancheria intima. Per la penetrazione non c’è bisogno di togliere slip leggeri. Hanno appena concluso un litigio, hanno ricevuto una notizia infelice: il senso di tristezza assale, perché gli occhi di entrambi sono aperti, socchiusi, guardano in luoghi lontani, abbandonati su distanze diverse. La solitudine è nei percorsi dei loro pensieri, con la mente per la propria strada, destini invisi.

Due anziani signori sono seduti in spiaggia, la coppia sotto l’ombrellone (2013), sono innamorati uno dell’altro nonostante l’alito malandato, la stitichezza inferocita, ogni cattivo odore ascellare, ogni muco, cerume o pelo grigio. I due ragazzi, Young Couple (2013) non sanno ancora che amarsi vuol dire tollerarsi – il ragazzo tiene una mano in tasca, con l’altra mano trattiene quella di lei, quasi a non farle fare un passo avanti, quasi a dirle, stiamo insieme, è meglio, piuttosato che stare insieme domani.

Il catalogo porta alcuni riferimenti: il bacio tra Psiche e Amore di Canova per la coppia nel letto abbracciata a cucchiaio; il bacio di Brancusi per questi due ultimi ragazzi giovani alla fermata del tram; la Pietà di Michelangelo per i due anziani sotto l’ombrello (un’immagine di Martin Parr da The Last Resort è speculare). Si può trovare una somiglianza tra questa produzione iperrealistica e il manierismo barocco – diventa quasi una dichiarazione di intento di fronte al ragazzo di colore (Youth, 2009) che alza la maglietta mostrando la ferita sul costato come il San Tommaso di Caravaggio.

Le mani nelle opere di Ron Mueck – le viscere e il cuore: Dead Dad

Con Ron Mueck, bisogna dare attenzione alle mani: dove sono, e cosa non stanno facendo. Sembra che le mani siano l’unica parte del corpo che si ribella a Ron Mueck – forse perché di solito, le mani, quando siamo nudi, le usiamo per coprirci. Tutto quello che è sgradevole agli occhi, Mueck ce lo mostra come si trattasse di una sua attenzione nei nostri confronti, una sua devozione – di nuovo, monastica – ad aprire le nostre viscere, e tra queste viscere, il cuore. La pelle è pallida: le unghie sono curate – sono le unghie di una donna a fine travaglio. Il neonato le è stato posato sul grembo ancora gonfio di liquido amniotico, il cordone non è ancora stato reciso, i peli pubici trattengono grumi di sangue e acqua proteica. Il volto lo conosciamo – è quello di ogni sorella che non abbiamo mai avuto. 

La carineria non interessa a nessuno; di certo, la carineria non interessa all’arte – così come il decoro di un interno, stoffe e carte stampate, non interessano all’architettura (neanche a noi). La tenerezza è perversa, l’ansia è primordiale, strati agrodolci all’orrore – scrive Robert Storr. L’unica cosa che Ron Mueck non contempla, è la nostalgia. Quando suo padre morì, Mueck si trovava in Inghilterra, lontano dalla famiglia in Australia: riprodusse il cadavere del genitore, Dead Dad (1996-97) a scala ridotta: l’altezza del manufatto è di 102 centimetri. 

Fu questa una delle prime opere che diede visibilità a Mueck – un lavoro umano a mente fredda, seguendo un’ossessione per i dettagli anatomici. Kill your babies è il primo insegnamento che si rifila, a buon rendere, a chi pensa di avere un talento – kill your dad è quello che si ottiene in risposta. Bisogna rompere la pietra, per trovare acqua e luce – in fisiologia, si dice vita.

Carlo Mazzoni

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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