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Leonard Bernstein, una scena del film
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Maestro, un difetto che oggi sembra pregio: accontentare e piacere a tutti

Maestro di Bradley Cooper ha un difetto che ai giorni nostri può apparire un pregio: vuole piacere a tutti – non si evince granché del dissidio emotivo che dilania Leonard Bernstein

Una recensione di Maestro, seconda regia cinematografica di Bradley Cooper

A tratti lento nel montaggio, Maestro è penalizzato dal passaggio dal bianco e nero al colore, vecchio espediente per incastonare il trascorrere del tempo. Non mancano incongruenze e concessioni da favola politically correct, come il bacio tra due uomini alla luce del sole a Central Park: impossibile anche solo pensare. lo, nella cupa atmosfera di caccia alle streghe imposta negli USA dal maccartismo e dal puritanesimo degli anni Cinquanta. 

Maestro, seconda regia cinematografica di Bradley Cooper, che ne è anche l’interprete principale, dopo la proiezione all’ultimo Festival del Cinema di Venezia il 2 settembre scorso, è in programmazione su Netflix, che ne è il distributore italiano. Otto sono le candidature all’Oscar, tra queste le principali per il film e i due attori (ma non la regia)

Si avverte la lezione di due capisaldi come Martin Scorsese e in particolare il modello stilistico e la texture narrativa di Steven Spielberg. Si rimane un po’ a bocca asciutta, smorzato il crescendo di pathos raggiunto con i Chichester Psalms e imboccato un finale che sapientemente glissa sul buio dell’angoscia, preludio della malattia e della morte. 

Maestro ha un difetto che ai giorni nostri può apparire come un pregio: vuole accontentare e piacere a tutti. Le ferite che bruciano e le cicatrici che lasciano dietro, il dramma di un confronto talvolta crudele viene edulcorato, relegato tra le pieghe di un racconto insieme familiare e patinato. Cooper si impone di non infrangere se non di rado l’accattivante cortina del convenzionale. Non si evince granché del dissidio emotivo che dilania il protagonista, un daimon che ne invade e rende unica la levatura creativa e artistica. 

La trama di Maestro – il film di Bradley Cooper sulla vita di Leonard Bernstein

Il racconto si snoda intorno alla storia d’amore e di complicità, di passione e reciproca ispirazione tra Leonard Bernstein, direttore d’orchestra e compositore americano, e la moglie, l’attrice Felicia Cohn Montealegre, cresciuta in Cile e giunta a New York quale allieva del pianista Claudio Arrau e studente di recitazione con Herbert Berghof. Felicia, pur avendo origini ebraiche da parte di padre, era di religione cattolica e si convertì all’ebraismo per sposare Leonard Bernstein nel 1951, al termine di un fidanzamento turbolento, già interrotto una prima volta alla soglia delle nozze. Felicia aveva 56 anni quando il cancro ebbe la meglio sulla sua resistenza. Ebbero tre figli, Jamie, Alexander e Nina Bernstein. 

Il ruolo di Felicia in Maestro di Bradley Cooper

Felicia, donna intellettuale, attrice di teatro, di televisione e cinema, attivista e pacifista quanto socialite nella Grande Mela, è liquidata come un’eroina coraggiosa che a denti stretti tiene insieme la famiglia e resta accanto a un uomo che venera, ma che non la può amare come vorrebbe. Un ragazzaccio abbronzato dai jeans a pelle scampanati. Una specie di Günther Sachs gay dai foulard gypset, trincerato dietro grosse lenti nere o specchiate, nascosto oltre un sipario di menzogne e sensi di colpa travestiti da boutades e sorrisi bonari. In fondo Leonard Bernstein in Maestro resta vittima del proprio paternalismo, intrappolato da una sindrome di Peter Pan che gli impedisce di crescere e ancor più di affrontare lo scoglio di scelte cruciali. 

Suona voluta la conversazione da sophisticated comedy Woody Allen, quel parlare nevrotico e concitato così newyorkese, durante il party ’70s nell’appartamento uptown NYC dei Bernstein. Stigmatizza in maniera fictional un ambiente, snobismi branché, iperboli, luoghi comuni e tic, abbracciando quella definizione di radical chic che Tom Wolfe, guru del New Journalism con Guy Talese, Joan Didion, Norman Mailer e Truman Capote, coniò per il nostro Lenny. 

La doppia vita di Leonard Bernstein

Leonard Bernstein, artista dai cachet stellari, era un uomo di sinistra, costantemente in trincea contro il sistema per combattere tante battaglie ideologiche, dall’integrazione delle minoranze al diritto allo studio, dall’assistenza medica pubblica fino alla lotta all’AIDS. 

Nel 1970 Lenny e Felicia organizzano un ricevimento di artisti e celebrità per raccogliere fondi a beneficio del gruppo rivoluzionario di ispirazione marxista-leninista delle Black Panthers, che irruppero nel salon più borghese della New York liberal muniti di catenoni metallici e acconciature afro, occhiali fumé e attillati chiodi in pelle nera. Canapées e champagne, Rothko e Wesselman alle pareti, dame in lungo e cotonatura col pugno guantato alzato simbolo del black power. L’evento produsse scandalo negli ambienti conservatori, echeggiando fino agli scranni del Congresso. 

Leonard Bernstein era sotto controllo dell’FBI per le sue dichiarate simpatie comuniste. Una sorveglianza che aumentò con la sua militanza pacifista durante la guerra in Vietnam, conclusa nel 1975, che vide Felicia finire agli arresti per aver manifestato davanti alla Casa Bianca a Washington DC. 

Maestro: l’interpretazione di Leonard Bernstein

Bradley Cooper ci sa fare. Si è calato nel personaggio, ricalcandone la fisionomica scolpita, la generosità guascona e il fascino volatile e medianico. Proietta il gusto per la provocazione e l’esagerazione caratteriale di un Bernstein larger than life, la sensualità e l’humour non vengono meno. Esalta la capacità comunicativa di Leonard Bernstein, gli eccessi e i chiaroscuri emotivi che gli appartengono e pennellano l’energia di demiurgo. La danza sinuosa e ipnotica sul podio, le mani librate nell’aria come farfalle in volo che sempre, anche discorrendo in poltrona o sdraiato in piscina, appaiono intente a dirigere un’orchestra. L’eterna sigaretta accesa tra le dita come vezzo e talismano. 

Superlativa e icastica nell’esprimere il lato oscuro di una relazione extra-gender irta di difficoltà, intessuta di discrezione, tensione e tolleranza, la fatica di comprendere, di sfumare ed accettare esercitata come una mistica, è l’interpretazione che di Felicia Montealegre ci dà Carey Mulligan. Mulligan è padrona di un arpeggio di sfumature sottese. Candidata, potrebbe vincere l’Oscar.

L’inquietudine aumenta, straripa in un profluvio di sigarette cui aggrapparsi, fumate una dopo l’altra, infilate in bocca come un rosario mai concluso. Preghiere che non saranno esaudite. L’amore, la compenetrazione e il sostegno fanno da collante, rimangono un credo incrollabile anche tra i marosi più violenti. L’incantesimo di questo pas-de-deux può rarefarsi, magari anche incrinarsi, ma non si rompe. La personalità di Felicia però non è del tutto esplorata da Cooper nel ruolo di musa e orditrice di mille trame culturali e sociali, un alter ego che per Leonard agisce da specchio psicanalitico e si trasforma in filtro e sutura con gli altri. 

Sei un omosessuale e potresti non cambiare mai, scriveva Felicia di Leonard Bernstein. Il coming out del Maestro

Felicia è varco d’accesso, perno morale ed ermeneuta, è fragilità e baluardo difensivo in parti uguali. In una lettera pubblicata nel 2013, Montealegre rivela – lo sapeva la maggioranza dei loro amici e collaborator – di essere a conoscenza dell’omosessualità del marito. Arthur Laurents, librettista di West Side Story, definiva Bernstein ‘un uomo gay che si è sposato’. Va giù duro Felicia, mentre scrive a Lenny: ‘Sei un omosessuale e potresti non cambiare mai – non ammetti la possibilità di una doppia vita, ma se la tua tranquillità, la tua salute, il tuo intero sistema nervoso dipende da certe abitudini sessuali, cosa ci puoi fare?’. 

Nel 1976 Leonard Bernstein decide di gettare la maschera e si confessa davanti ai figli. Fatto outing va a convivere a Palm Springs con un altro direttore d’orchestra e clarinettista, Tom Cothran, che l’AIDS si porterà via nel 1980. Quando la moglie scopre di essere malata di tumore al seno e, subita un’inutile mastectomia, comprende di non avere speranza, Lenny non esita a tornare da lei e se ne occupa fino alla morte, avvenuta il 16 giugno 1978. In seguito instaura una relazione con l’assicuratore giapponese Kunihiko Hashimoto, durata dieci anni. Lo incontra a Tokyo dopo un concerto della New York Philarmonic.

La grandezza artistica – allora in parte contestata e discussa per la sua peculiare colorazione – di Leonard Bernstein

Se per il Cooper regista l’asse portante della vicenda risiede nella storia di una coppia diversa e unica nel suo genere, ovvero nell’assioma che l’incontro di due anime va oltre ogni barriera e l’amore è l’amore ad ogni costo, la grande assente del film risulta essere proprio la musica. Ci si deve fidare, bisogna prenderla come dogma grazie a minute tessere narrative, spiarla nei pochi spiragli concessi, la grandezza artistica – allora in parte contestata e discussa per la sua peculiare colorazione – di Leonard Bernstein. La vita coniugale del Maestro è importante, almeno quanto la sua sfaccettata pansessualità, che in apparenza vive con disinvoltura e senza drammi. Almeno fino alla perdita della moglie e alla solitudine lancinante causata dalla sua perdita. Ma in Maestro non si evince quale sia stata la sua rivoluzionaria statura d’artista, la causa e la progettualità visionaria e contagiosa che faranno assurgere Bernstein a primo grande conductor americano. 

Una biografia di Leonard Bernstein

Nato a Lawrence, Massachusetts, nel 1918 da una famiglia ebraica di emigrati polacchi, Leonard Bernstein si affermò anche quale autore di composizioni considerate ormai classici d’ogni tempo, da West Side Story a Candide, da On the Town fino al ciclopico Mass, commissionato da Jacqueline Bouvier Onassis nel 1971 in memoria del primo consorte per l’inaugurazione del John Fitzgerald Kennedy Center for the Performing Arts, a Washington DC. L’oratorio-opera, nel 2022 messo in scena in modo superbo da Damiano Michieletto per la stagione estiva di Caracalla a Roma con direzione di Diego Matheuz, verrà stroncato per la sua innovativa commistione di stili musicali, linguaggi e apporti liturgici cattolici. Incontrò una fortuna limitata per l’eversiva critica socio-politica che lo percorreva negli anni del conflitto in Vietnam, intrapreso come un vessillo ideologico dall’amministrazione repubblicana di Nixon. 

West Side Story è il tentativo di Bernstein di realizzare un teatro musicale nazionale indipendente e autonomo, qualcosa di assolutamente americano. Ibrida il jazz con la musica classica e lo fa tra le luci abbaglianti di Broadway, dando vita a un capolavoro che si spinge al di là del senso di un musical. Lenny riceve una nomination agli Academy Awards nel 1955 per la colonna sonora di Fronte del Porto di Elia Kazan. che di statuette ne piglierà addirittura otto.

La vita di Leonard Bernstein che non è stata raccontata nel film Maestro di Bradley Cooper

Nel film di Bradley Cooper non sono citate pagine della carriera di Bernstein che sono intrecciate al suo tragitto esistenziale. Appena suggerito il flusso di comunicatore mediatico impareggiabile, quanto il dissidio interiore che divorava Bernstein al pari dell’aritmia d’una sessualità speculare. Si divideva tra lo stare sotto i riflettori nel ruolo di direttore superstar e fenomeno globale contro il silenzio appartato e la meditazione richiesti dalla prolifica attività compositiva. Latitano, per fare un esempio, i suoi successi in campo operistico dove sigla pagine indimenticabili e l’approdo fatidico alla Scala di Milano. 

L’attrazione di Bernstein verso il proprio sesso è trattata con delicatezza. La storia incalza sulla chiamata a sostituire d’improvviso Bruno Walter indisposto alla Carnegie Hall nel novembre 1943, della quale sarà poi nominato direttore assistente. La telefonata che cambia il suo destino squilla nel buio mentre è a letto con il bel Dennis Oppenheim, clarinettista e producer, nonché amante di lungo corso, che chiusa la parentesi con Lenny si sposerà per ben tre volte. 

Leonard Bernstein assiste con Felicia alle prove del balletto On the Town, da lui musicato nel 1944 per il coreografo Jerome Robbins

I marinai volteggiano muscolari e ammiccanti, la tensione è tangibile e Felicia lo avverte, ma al solito tace. Un Leonard Bernstein galvanizzato assiste alle prove del balletto On the Town, da lui musicato nel 1944 per il coreografo Jerome Robbins. Il balletto, pièce de resistance di Gene Kelly, è imperniato su un plot dove affiorano riflessi omoerotici e camp. Un inno d’amore per New York City, la sua città d’adozione, il luogo del cuore. 

Viene in mente, mutatis mutandis, l’epico biopic dedicato a un altro americano del Novecento – wasp questa volta – e dall’altrettanto intricata sessualità, ossia Cole Porter. Night and day di Michael Curtiz, 1946, è più efficace del recente ed esplicito De-Lovely, girato da Irwin Winkler nel 2004. La differenza fra i due epos è che la sofisticata Linda Porter, più anziana del consorte e affrancata da un primo matrimonio nel quale aveva subito violenze fisiche e psicologiche, non mostrava più la minima inclinazione a condividere il talamo con alcun esponente del sesso maschile. Cercava un rapporto puramente platonico e romantico e si impose come manager e nume tutelare del compositore di Anything goes. Felicia al contario il suo uomo lo vuole eccome. Il desiderio le pulsa nel sangue e vibra a tratti nello sguardo traslucido venato da malinconie fugaci quanto eloquenti. Bravissima Carey Mulligan nel tratteggiarla. Fino all’ultimo quest’aspirazione frantuma sogni e macina attese, gira la pallina nella roulette degli inganni e delle verità.

L’amicizia tra Leonard Bernstein e Maria Callas – in Maestro nessun riferimento all’Italia

In Maestro manca ogni riferimento al rapporto di amicizia di Bernstein con Maria Callas, iniziato con la Medea di Cherubini scaligera nel 1953, un trionfo che il 10 dicembre di quell’anno cancellò di colpo la prima stagionale on stage tre giorni prima, con Renata Tebaldi protagonista. I vedovi di Callas la ricordano per l’applauso finale più lungo e fragoroso dell’intera parabola canora della Divina. 

Qualsiasi riferimento all’Italia, Paese di rilievo per lo sviluppo artistico di Bernstein, nel quale contava sostenitori e amici, in Maestro è bandito. Svanito ogni ricordo della tournée del 1948 che vide il trentenne Bernstein sedurre il Teatro Argentina e l’Accademia di Santa Cecilia in Roma. Idem per la prémiere di The Age of Anxiety, musicata da Bernstein, tenutasi al Teatro Comunale di Firenze quattro anni dopo. Nemmeno l’ombra di Spoleto e del Festival dei Due Mondi, la rassegna estiva umbra con doppio US inventata da Giancarlo Menotti, dove Bernstein si manifesta volentieri e firma autografi con il fraterno amico Thomas Schippers, geniale collega ucciso al culmine della carriera da un cancro ai polmoni nel 1977. 

Ci sono troppi spazi vuoti, troppe lacune nel film Maestro che non sono colmate

Leonard Bernstein il gigante, con la sua modernità che precorre il tempo, in Maestro si intravede solo a sprazzi. Il suo segno distintivo si nutre d’indipendenza e umanità. Opere che sembravano musical di Broadway e musical che paiono opere, neo-romantico e un mélange di sperimentazioni spiazzanti che spalancano porte fino a quel momento serrate, creando appartenenze e circolarità di spirito e pensiero.

Le sue stimmate come direttore d’orchestra – scrive Giovanni Gavazzeni, curatore del volume Leonard Bernstein Scoperte, apparso nel 2018 – sono l’esuberanza e la visceralità del suono, che però non sfociano mai nel brutalismo istintuale. Mahler, al quale forse si sentiva più empiricamente legato, Stravinkij, Beethoven, Brahms, Strauss, ma anche Schumann e ovviamente i compositori americani delle generazioni precedenti, come  Ives e Copland: sono gli autori che meglio di tutti seppero esaltare l’enorme talento di Bernstein per la comprensione delle strutture musicali e degli impasti timbrici. 

Leonard Bernstein e l’imprinting di Dimitri Mitropoulos

La dicotomia del suo pensare e del suo vivere la musica nel film sbiadisce nelle aporie coniugali e nell’omertà sulla sua natura più autentica, che non esita ad ammanire come placebo alla figlia adolescente che fa domande dirette, dopo aver sentito dicerie e pettegolezzi. Non è considerato l’imprinting di un maestro amatissimo quale il greco Dimitri Mitropoulos, di cui Bernstein parlava con affetto e commozione alla serata in cui a Venezia, a metà degli anni Ottanta, gli veniva conferito il premio una Vita per Musica. Fuori dalle dorature della Fenice gremita pioveva a dirotto, assai malinconicamente. Nel pomeriggio una visita al cimitero acattolico sull’Isola di San Michele per porgere omaggio alla tomba di Igor Stravinskij. 

Le Sacre è sesso puro, ripeteva Lenny. La ha diretta da stupendo forsennato, struggendosi di sudore e immedesimazione, abbandonandosi a un’esplosione dionisiaca, all’orgasmo catartico che tanto turbava puristi, bacchettoni e benpensanti. Sideralmente lontano dalla lettura filologica di Boulez e Abbado ma ostinatamente non facile né volgare. 

Le critiche di Harold Schonberg a Leonard Bernstein nelle colonne del New York Times all’indomani del debutto di Mass

Nella pellicola compare in un rapido cameo soltanto il russo naturalizzato Sergej Koussevitzsky, con cui Leonard Bernstein studia composizione musicale presso il Berkshire Music Center a Tanglewood, per poi affiancarlo come assistente e quindi succedergli nell’insegnamento. Un lunch open air agli Hamptons in cui l’attempato direttore consiglia il giovane Lenny di cambiare in Burns quel cognome troppo dichiaratamente ebreo.

Così sul magazine High Fidelity nel 1972, Bernstein rispondeva all’accusa di essere l’esegeta d’un confusionario eclettismo, mossagli dal critico Harold Schonberg dalle colonne del New York Times l’indomani del debutto di Mass, che data all’8 settembre 1971. Schonberg lo aveva tacciato di mescolare tutto e di più, di aver cucinato un calderone pulp dove a casaccio sobbollivano il rock, Broadway, melodie riciclate da West Side Story e Fancy Free, raga, i Beatles, frattaglie di ballate, Copland, corali, inni revivalisti, memorie ebraiche e liturgie cattoliche spruzzate di bande itineranti. 

Appartengo a un’area musicale eclettica – questa parola ‘eclettico’ mi viene lanciata addosso di tanto in tanto con accezione critica negativa, perché apparentemente molto spazio è occupato dal non-eclettismo, qualunque cosa significhi. Non riesco a pensare a un compositore che amo, nella storia della musica, che non sia in un modo o nell’altro, eclettico. Nessun compositore può essere immaginato senza chi lo ha preceduto. …Stravinskij, mago della trasformazione e alchimista, è una sorta di paradigma dell’eclettismo… Accetto l’epiteto eclettico, perché questo mi mette nella compagnia più grande di tutti, quella di Stravinskij e Beethoven e di tanti altri.

Leonard Bernstein Scoperte, a cura di Giovanni Gavazzeni

Ecco chi era Leonard Bernstein, libertà creativa senza limiti. ricerca e sperimentazione, passionalità e militanza incendiaria in ogni singolo aspetto della propria personalità. Con l’aggiunta della fiducia nell’essere umano e della compassione. Una statura e una struttura di vita e lavoro impossibile da raccontare in un film, pur confezionato a dovere come Maestro. I quesiti non sono soddisfatti. Ci sarebbero troppe strade da percorrere, infinite idee, palinsesti e sfumature da sviscerare. Lenny eclettico come cocktail di follia, preveggenza e mistero, compendio di missione e dono di sé.
Per un approfondimento, una chiave che offre varie valenze e informazioni la fornisce il libro Leonard Bernstein Scoperte, a cura di Giovanni Gavazzeni. Un ritratto vivido del musicista, una specie di diario in cui la storia civile confluisce in quella musicale e la musica si fa strumento di trasformazione della civiltà. In Scoperte il compositore esplora i continenti antichi della musica classica, le nuove città del pop e gli edifici in chiaroscuro del jazz. Davvero interessante Leonard Bernstein Reflections, un docu-film pluri-premiato e toccante, prodotto nel 1978 da Peter Rosen che ne è anche il regista. Una circumnavigazione intorno a Bernstein che viaggia attraverso il racconto della sua infanzia, della sua formazione ad Harvard e al Curtis Institute. Particolare attenzione è riservata all’influenza di maestri come Reiner, Mitropoulos e Koussevitsky. 

Cesare Cunaccia

L’autore non collabora, non lavora né partecipa, non riceve compensi né finanziamenti, da alcuna azienda o organizzazione che possa ricevere vantaggi economici o di sorta dalla pubblicazione di questo articolo.

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